Gli inglesi, si sa, sono degli esteti. Dai tempi di “Sgt. Pepper” e “Dark Side Of The Moon”, le band albioniche hanno una specie di ossessione per la produzione impeccabile, per gli arrangiamenti stratificati, per la certosina arte di manipolare in studio ciò che viene suonato dal vivo. Forse è anche per questo che, nel Regno Unito, non si è sviluppata una cultura “garage” come quella che ha fatto grande il rock dei cugini d’Oltreoceano. Talvolta, il prezzo che gli inglesi pagano per questa loro attitudine è il manierismo, il formalismo fine a se stesso, la mancanza di sincerità e di immediatezza (vedi anche certo progressive). Tutti discorsi che possono apparire oggi risaputi e retorici, ma che è bene continuare a ribadire.
Anche gli Stereolab, duo britannico attivo negli anni 90 e guidato dalle figure di Tim Gane e Laetitia Sadier, puntavano tutto sul lavoro in studio di registrazione, sull’assemblaggio accurato di blocchi sonori precedentemente eseguiti “live”, su quel mirabolante arsenale di trucchi ed effetti speciali a cui gli inglesi non hanno mai rinunciato, pur di vedere le loro ambizioni trasformate in musica. Aggraziate e buffe al contempo, sorrette da una concezione “strutturalista” del brano musicale, minimaliste eppur dense, le composizioni degli Stereolab conciliano l’inconciliabile: Velvet Underground, Neu!, Cocteau Twins. Tre band d’avanguardia, una per decennio, convivono, senza paradossi, nelle architetture di questa stravagante band: l’ossessivo strimpellio di chitarra dei primi; il ritmo martellante e implacabile dei secondi; i gorgheggi eterei dei terzi. L’alchimia è perfetta, ma a ben vedere non si tratta di un’alchimia: le fonti sonore vengono infatti semplicemente sovrapposte, in modo da rimanere ben distinguibili. E se ciò può costituire un limite, d’altra parte è direttamente responsabile del fascino naif di questa musica.
Il brano introduttivo di questo loro secondo L.P. , “Tone Burst”, è una sorta di proclamazione del “metodo Stereolab”: scampanellio chitarristico (due accordi al massimo), rilassato motivetto d’organo, vocalizzi impalpabili, strofa cantata nel tono languido e trasognato di una chanteuse francofona (la Sadier), il tessuto armonico che si fa sempre più denso, lambendo la cacofonia, sino al finale catastrofico. E’ un metodo non dissimile da quello “shoegazer” dei My Bloody Valentine: solo che gli Stereolab, al muro sonoro eretto dai maestri irlandesi, aggiungono una forte componente ritmica, raddoppiando lo stato di ipnosi. Il risultato è una musica candida, paradisiaca, eternamente protesa verso la luce, un autentico “daydream”, che raggiunge un vertice espressivo nel capolavoro “Crest”, con un ritmo da capogiro, un inebriante girotondo di strumenti messi in loop, infinite volute sonore che deflagrano in un finale tanto assordante quanto emozionante: siamo davvero ai livelli dello shoegazing più ispirato.
Ma le visioni celestiali e l’ebbrezza cosmica sono solo una faccia della medaglia. Tra le pieghe di queste eteree (pur nel loro frastuono) tessiture, serpeggiano infatti stati d’animo di nevrosi, ansia, inquietudine. In “Our Trinitone Blast”, l’angoscia viene sapientemente mimetizzata nella stasi della tastiera, ma una voce effettata che richiama quella di “Syringe Mouth” dei Mercury Rev porta i nervi allo scoperto; “Lock-Groove Lullaby” è una nenia funebre disturbata da capricci elettronici alla Ravenstine; un canto spettrale alla Nico e claustrofobie alla Suicide la fanno da padroni in “Analogue Rock”, una nube oscura che non promette nulla di buono, solcata nel finale da un falsetto petulante, capace di far crollare ogni residuo di energia nervosa. Ma l’apice della paranoia è costituito probabilmente da “Golden Ball”, con una voce che pare uscita da “Twin Infinitives”, una cadenza lenta e snervante, frasi sconnesse di organo, prima che i consueti sospiri dream-pop giungano ad auspicare la redenzione.
Forse gli episodi più riusciti sono quelli in cui i due opposti stati d’animo si alternano e si compensano, come in “Pause”, dove una cantilena narcolettica, accompagnata dal tepore di dolci note d’organo, cresce e sfocia in un finale all’insegna di contorsioni chitarristiche alla Dead C, da cui emergono, di nuovo, candide e ingenue voci bianche; o come nella magnifica “Pack Yr Romantic Mind”, introdotta da un romantico motivetto di fisarmonica sintetizzata e cantata dalla Sadier nel registro estenuato e sofisticato della lounge music, ma sempre pronta a repentini cambi di scenario, digressioni capaci di gettare ombre anche su un brano così apparentemente disteso e compassato. Questi sono gli Stereolab più creativi e peculiari, ma va detto, a onor del vero, che in questo disco trovano spazio anche momenti in cui la rielaborazione del passato lascia spazio al mero omaggio (o citazione) delle fonti d’ispirazione dichiarate della band: “I’m Going Out Of My Way” ha lo stesso incipit di “Sister Ray” (identico!), mentre la lunga “Jenny Ondioline” altro non è che una parafrasi di “Hallogallo” dei Neu!.
Complessivamente “Transient” resta un disco ispirato e gradevole, una vivida testimonianza di quella cultura “post” tipica degli anni 90, fondata sull’utilizzo dei risultati ottenuti dagli sperimentatori della “vecchia” musica; risultati che diventano il punto di partenza (la materia prima) per le ricerche delle nuove leve.
(P.S. Come genere, mettete pure "shoegazer", anche se so già che susciterà contestazioni a valanga ;-D)
Carico i commenti... con calma