Non ho figli. E, fosse «Cuore» invece di DeBaser, un incipit del genere sarebbe filato nella rubrica «E chi se ne frega».

Però talvolta ci penso, a che ne sarebbe stato di me, se ne avessi avuti. E spesso mi rammarico, qualche altra volta tiro un sospiro di sollievo.

Perché ho la certezza che rapportarsi con un figlio sia talvolta una faccenda che ti può far tremare le vene e i polsi.

Vedo mio figlio che non può fare a meno di precipitarsi nel primo baratro che gli si presenta davanti, manco fosse Alex Chilton, l'uomo chiamato distruzione: di fermarsi, glielo faccio intendere con le buone maniere – io e lui seduti intorno ad un tavolo, ne parliamo con pacatezza – oppure con le cattive, a suon di calci nel sedere? Oppure lo lascio fare finché capisce tutto a sue spese?

E se il cattivo maestro di mio figlio sono proprio io – che, ai tempi, il baratro era la mia casa – allora come la metto, la faccenda?

Ecco, quando qualche mese fa ho comprato questo disco di Steve Earle, a pensare alla vicenda sua e di suo figlio Justin, mi sono sentito decisamente sollevato per il fatto di non avere un figlio.

La vicenda dei due, nella sua estrema semplicità, è questa.

Che Steve ha una insana passione per il rock, come ogni rispettabile texano, al punto di farsene una ragione di vita; lo fa dannatamente bene, il rock, ma gli viene male tutto il resto. Tutto il resto lo riassumo in sette matrimoni ed altrettanti divorzi, tre figli poco frequentati, una smisurata passione per alcool, eroina e cocaina, e per le armi. Oggi Steve ha 66 anni portati male ma nessuno avrebbe mai scommesso che avesse varcato la soglia dei 40; se ci è riuscito è solo perché, sul limitare di quella soglia, le sue passioni lo menano dritto in una prigione da cui esce perché accetta di entrare in una comunità di recupero. Oggi Steve avrebbe una gran voglia di mollare con il rock ma deve continuare a fare dischi per pagare gli alimenti alle sette che un giorno gli dissero sì.

Che Justin è il primo figlio di Steve e da lui eredita talento artistico e passioni deviate, il buon sangue non mente e nemmeno quello cattivo. È bravo, non come papà Steve, ma è indiscutibilmente bravo con la chitarra in mano e davanti ad un microfono. Solo che crescere senza un padre non gli riesce bene, l'adolescenza è sbandata, e forse per accettarla e trovare pace la racconta poi in dischi esplicativi sin dal titolo, come «Single Mothers», «Absent Fathers» e «Kids in the Streets». L'adolescenza Justin se la brucia velocemente a furia di alcolici e eroina, una overdose dopo l'altra, cinque secondo chi ne ha tenuto il conto. Però ne esce sempre vivo, fa una famiglia, diventa padre. Però non la smette con l'eroina e l'alcool; finisce in ospedale per aver aspirato vomito nei polmoni, è sopravvissuto non si sa come e un dottore glielo dice chiaro che se non ci da un taglio muore presto, ma lui forse in un momento di delirio si convince di essere come Bruce Willis in «Unbreackable», solo che quello è un film e nemmeno tratto dalla storia vera di Justin. Che muore per un'overdose fatale il 20 agosto dello scorso anno.

Steve, che già avrebbe voluto mollare tutto, trova invece in una bimbetta di tre anni un'ottava ragione per continuare a fare dischi.

«J.T.» nasce qui e quelle due lettere stanno per Justin Townes, perché Justin di secondo nome fa Townes. Come Townes Van Zandt, che è uno dei due a cui Steve deve artisticamente tutto, e l'altro è Guy Clark; e Steve, per pagare gli alimenti, qualche anno fa si inventa due bellissimi tributi, «Townes» e «Guy».

«J.T.» forse è un tributo, forse è un omaggio al figlio Justin, più probabilmente è l'unico modo che Steve conosce per trovare soldi e provare a costruire un futuro decente per la nipotina.

Sia come sia, sono 10 canzoni di Justin che Steve si cuce addosso, il country roccheggiante alla maniera di Johnny cash di «I Don't Care», «Ain't Glad I'm Leaving» e «They Killed Joe Henry», le ballate «Far Away in Another Town» e «Turn Out My Lights», il lento blueseggiare di «The Saint of Lost Causes» e quello decisamente andante di «Lone Pine Hill» e «Harlem River Blues», fino al (quasi) rockabilly «Champagne Corolla».

Poi ci sta il brano che chiude tutto, «Last Words», l'unico scritto da Steve, per ricordare l'ultima telefonata ricevuta da Justin, la sera del 20 agosto.

«Fai in modo che non sia io a doverti seppellire».

«Non lo farai».

Riattaccano entrambi.

Justin si inietta l'ultima dose e finisce così.

Resta «J.T.», che è un ottimo punto di partenza per fare la conoscenza di Justin.

Ancora meglio, restano i dischi di Justin: i miei preferiti, andando a ritroso, «The Saint of Lost Causes», «Kids in the Street» e «Harlem River Blues».

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