Il chitarrista Steve Hackett lasciò i Genesis nel 1977, sentendosi soffocato dalla diarchia Tony Banks/Michael Rutheford a livello di spazi compositivi e soprattutto di direzione musicale. Le rispettive, distinte carriere sono lì a dimostrarlo: i suoi due ex-compagni, compositori assai più dotati di lui ma alle prese con un repertorio volutamente commerciale, per buona parte vacuo e ruffiano, lui invece titolare di una sfilza di album sinceri e coerenti con le sue visioni musicali, tutti quindi rispettabili ma decisamente tutt'altro che imperdibili, dati i congeniti limiti del nostro a livello di songwriting e di estro e profondità concettuale.

Hackett senz'altro ispirato e personale esecutore quindi, ma musicista non così completo, più adatto in definitiva a costituire la squisita ciliegina su una torta cucinata essenzialmente da altri (come accadeva nei Genesis) che come capobanda, con conseguenti, addizionali compiti di direzione musicale, composizione, scelta dei brani, dei collaboratori, di tutto. Alla luce di questo, "Genesis Revisited" appare come uno dei suoi album più consistenti, non fosse altro per le cinque o sei perle conclamate pescate dal repertorio "buono" del suo vecchio gruppo e disseminate per l'opera, a costituirne l'ossatura principale e a stimolare la curiosità degli appassionati.

In realtà il disco contiene anche un pugno di canzoni che solo tangenzialmente hanno a che fare con una rivisitazione dei Genesis, se non addirittura per niente come capita ad un paio di esse. Ma andiamo con ordine: l'incipit è costituito da "Watcher Of The Skies", resa in maniera decisamente simile all'originale ("Foxtrot", 1972) senza effettive sorprese. I suoni risentono chiaramente di due decadi ed oltre di evoluzione tecnica e quindi risultano sensibilmente più curati, dinamici e puliti ma il brano è quello lì: struttura, melodie e ritmi. L'orchestra prende il posto del glorioso mellotron nei primi, celebri due minuti di intro, il canto è affidato a John Wetton (Family, King Crimson, UK, Uriah Heep, Wishbone Ash, Asia...) di cui è giusto pensare come sempre tutto il bene possibile, ma anche concludere che Gabriel era tutt'altra cosa... La voce di John è forte e ipermelodica, ma sembra che faccia il compitino a confronto con l'accorata interpretazione originale di Peter. Stessa cosa per Bill Bruford dietro ai tamburi: costui mi è sempre apparso come uno dei più involuti batteristi del rock; è talmente tecnico e perfetto (agli inizi di carriera con gli Yes aveva molto più swing) che sembra una batteria elettronica. Molto ma molto meglio il groove jazzy del Phil Collins d'annata, che faceva respirare il pezzo con i suoi colpi sempre diversi e sapidamente rotolanti uno sull'altro.

A seguire, un secondo colosso riconosciuto del catalogo genesisiano, quella "Dance On A Volcano" che apriva l'ultimo dei loro album perfetti, "A Trick Of The Tail" del 1976. Qui Hackett si lascia andare subito ad un inutile prologo di chitarra rock-blues (!) facendoci attendere un buon minuto e mezzo prima che i rintocchi della 12 corde elettrica diano il là ai caratteristici, ispirati stacchi iniziali, e poi continua a peccare un poco di orgoglio e narcisismo riservandosi la parte vocale che fu di Collins. Figurarsi... la sua voce limitata e povera, costretta a giostrare un'ottava sotto a quella dell'originale e a condirsi di estemporanei effetti elettronici, uccide letteralmente il pathos trionfale e orgiastico trasmesso dalla lussureggiante concezione ritmica del brano, resa qui al meglio da Chester Thompson (il batterista "live" storico dei Genesis, che la conosce bene per averla eseguita migliaia di volte) e Alphonso Johnson (ex-Weather Report, in predicato di sostituire Hackett nei Genesis, prima che optassero per Daryl Stuermer).

La terza canzone "Valley Of The Kings" è invece completamente inedita e quindi avulsa dal titolo e dallo scopo dell'album in questione: è uno strumentale, in sostanza un sonorissimo e intenso assolo di chitarra elettrica su di una ritmica cadenzata e marziale, asburgica nella sua rigidezza e risolutezza. Steve dà fondo a tutta la sua sapienza nella creazione e nel controllo dei suoi celeberrimi suoni distortissimi ed extralunghi, sinuosi e turgidi di armoniche, smanettando con la leva del vibrato e giocando con la saturazione delle valvole dell'amplificatore per travolgere l'ascoltatore con bordate di elettricità. Il brano è da allora entrato regolarmente nelle scalette delle esibizioni dal vivo del nostro, costituendo spesso l'apertura dei concerti.

"Deja Vu" che segue è firmata Gabriel/Hackett e risale ai tempi di "Selling England By The Pound" (1973). Il cantante dei Genesis aveva composto buona parte dell'ariosa e mesta melodia vocale che caratterizza il brano ed il gruppo aveva cominciato a lavorarci sopra, senza però completarlo. Hackett qui riprende, completa e rifinisce il tutto, affidandone l'interpretazione a Paul Carrack (Mike&The Mechanics), la cui voce pulita e controllata, pur risultando soddisfacente, fa anch'essa rimpiangere l'impareggiabile animosità di quella di Gabriel, il quale alle prese con una melodia così tipicamente sua (triste ed evocativa...) avrebbe fatto faville.

Per la riproposizione di "Firth Of Fifth" (capolavoro di "Selling England By The Pound") valgono più o meno le considerazioni fatte per "Watcher Of The Skies". C'è infatti di nuovo John Wetton dietro il microfono, ma al contempo gli aggiornamenti apportati all'arrangiamento originale risultano più marcati. La celeberrima intro di pianoforte è resa inizialmente con il glokenspiel (elettronico) e poi arrangiata con l'orchestra, che poi gioca colle chitarre del titolare del disco nella lunga porzione strumentale centrale, in un contrasto di chiaroscuri e di varianti melodico/ritmiche al canovaccio ben conosciuto della canzone. Fino a confluire nel mitico, romanticissimo assolo principale di chitarra, vertice di carriera del musicista inglese, eseguito in maniera sostanzialmente fedele all'originale.   

Deludente senza appello la resa di "For Absent Friends": il gioiellino folk di "Nursery Cryme" (1971, e primo effettivo contributo compositivo di Hackett per il gruppo) viene banalmente arrangiato per sola voce ed orchestra al nuovo ritmo di walzer lento (troppo), smarrendo la sua compattezza ed il suo fascino medievaleggiante, senza che l'interpretazione di Colin Blunstone (Alan Parsons' Project) riesca a farlo decollare.

Sorprendente invece l'inclusione di "Your Own Special Way" (ripresa da "Wind And Wuthering", 1976), che nelle note di copertina viene definita da Hackett come una delle migliori composizioni del suo ex-compagno Rutheford. Ma non era proprio lo scivolamento progressivo verso canzonette banali come questa a determinare la sua decisione di lasciare i Genesis? Comunque l'insipienza dell'originale viene fedelmente replicata nella riproposta di Hackett, affidata di nuovo alla rotonda voce di Carrack che quanto meno batte ai punti il sottile falsetto del Phil Collins di quegli anni.

In posizione 8 arriva la mia preferita del lavoro, ossia la visionaria "The Fountain Of Salmacis", a suo tempo grande chiusura di "Nursery Crime". Proprio bella l'introduzione affidata alle corde di nylon sapientemente pizzicate da Steve, sulle quali precipita poi la micidiale, epocale assolvenza a'la King Crimson che caratterizza subito il brano. La sarabanda strumentale centrale, già intricata e cangiante di suo, viene ulteriormente elaborata, estesa, complicata e rifinita da Hackett, che al tempo dell'incisione originale del pezzo era da pochissimo entrato nel gruppo e quindi non ancora sufficientemente sintonizzato sulla sua musica e sul suo ruolo in essa, soccombendo quindi assai nettamente alle idee e alle esecuzioni dell'altro solista del gruppo, il tastierista Tony Banks. Egli dunque si toglie in questa occasione qualche sassolino dalle scarpe, condendo abbondantemente di interventi e variazioni chitarristiche la partitura originale di questa gemma genesisiana, incrociandosi con l'orchestra, col flauto di suo fratello John e cogli interventi del suo tastierista Julian Colbeck, sbagliando solo nel volersi riservare anche la parte vocale, inevitabilmente debole e inadeguata.

"Waiting Room Only" è ispirata, piuttosto alla lontana, allo strumentale con quasi lo stesso titolo, compreso in "The Lamb Lies Down On Broadway" (1975) e procede in maniera alquanto ostica ed effettistica nei primi minuti, per poi assumere un curioso aspetto ad elastico fra rockblues e techno, confluendo infine in una "I Know What I Like" (ancora e sempre da "Selling England By The Pound") stravolta in chiave jazz/blues/swing, con tanto di armonica a bocca (nella quale Steve è riconosciuto virtuoso), vibrafono, sax e spazzolate di rullante: niente male.

Per il gran finale, niente di meglio che la riesumazione della classica "Los Endos", la trascinante chiusura di "A Trick Of The Tail" nonché di centinaia di concerti dei Genesis, con e senza Hackett. Il chitarrista la reinterpreta arricchendola come ovvio di parti di chitarra (pure un gratuito estratto del famigerato assolo in tapping di "Dancing With The Moonlight Knight", così... in un nuovo, piccolo attacco di ruffianeria...) ma sostanzialmente rispettandone le sequenze.

Steve Hackett, coerentemente e orgogliosamente, non ha mai ceduto alla tentazione e all'eventualità di un possibile rientro nei Genesis. Ciò non toglie che quei sei anni e altrettanti dischi in studio insieme al gruppo abbiano segnato profondamente il suo stile e la sua sensibilità musicale. Con questo lavoro del 1996 egli ha inteso di guardare in faccia il suo passato, divertirsi su quelle vecchie partiture (alcune di esse d'altronde tenute sempre calde nei suoi concerti) e, perché no, approfittare un attimo dell'enorme seguito popolare che gli ultimi Genesis ancora avevano in quegli anni.  

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