Nel 2003, quattro anni dopo "Darktown", probabilmente l'episodio più oscuro e musicalmente più duro della sua carriera solista, ed inframezzato da "Sketches Of Satie", una delle sue ormai abituali incursioni in ambito classico, Steve Hackett torna con "To Watch The Storms", disco caratterizzato da sonorità meno "metalliche" rispetto al suo predecessore, pur mantenendo tutti gli elementi caratteristici di uno stile che il chitarrista inglese ha forgiato con gli anni e con l'avanzare della propria carriera solista, affermandosi come uno dei compositori più originali e personali del panorama musicale contemporaneo.
Si può a ragion veduta affermare che oramai il termine "hackettiano" identifica in maniera ben precisa un mondo di sonorità esplorate dal chitarrista inglese, che non rimangono confinate nel progressive, ma si spingono ben oltre.
La parola d'ordine nell'avventura solistica di Hackett è "eclettismo", in un suo disco si possono trovare episodi in cui la chitarra classica traccia eleganti affreschi, improvvisamente squarciati da suoni elettronici, freddi ed industriali, momenti in cui la chitarra elettrica di Steve con poche note riesce a dire più di quanto siano in grado di fare migliaia di chitarristi con una cascata di note, altri in cui quella chitarra spinge sull'acceleratore o addirittura tace, perchè, differentemente da quanto si potrebbe pensare, un disco di Steve Hackett non è un pretesto per mettere in mostra sterili abilità strumentali.
Quanto detto sopra si ritrova ovviamente anche in questo "To Watch The Storms", uno dei dischi più riusciti di Steve Hackett, che negli anni zero non ha mancato un colpo, sentire "Wild Orchids" e "Out Of The Tunnel's Mouth" per conferma.
Eccetto forse per la cover di Thomas Dolby "The Devil Is An Englishman", a mio avviso l'episodio meno riuscito, il resto dei pezzi viaggia su standard molto alti, a partire dall'opener "Strutton Ground", dominata dalle voci e da un gran giro di chitarra, passando per "Frozen Statues", che si poggia invece su pochi accordi di piano su cui la voce di Steve viene contrappuntata da interventi di sassofono del bravissimo Rob Townsend e che funge da rampa di lancio per la furiosa "Mechanical Bride", appuntamento fisso in sede live, forse uno dei pezzi più pesanti scritti da Hackett.
Non mancano i momenti classici, rappresentati da "Wind, Sand and Stars" e da "The Moon Under Water" e nemmeno i pezzi più lenti, ovvero le ottime "This World", "Rebecca" e "Serpentine Song", anche questa ormai immancabile dal vivo. Da segnalare anche la percussiva ed ipnotica "The Silk Road", forse il pezzo più sperimentale dell'intero disco, caratterizzato da sonorità arabeggianti, che spesso si ritrovano nella produzione di Hackett.
Il disco esiste anche in edizione speciale, in cui sono presenti quattro pezzi addizionali, fra i quali "Fire Island", un blues in cui Steve si cimenta anche con l'armonica, il suo primo strumento.
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