"Un musicista che ha detto la sua", l'ho definito nella mia personalissima classifica dei migliori solisti Jazz-Fusion di sempre. E nella stessa classifica, come avrete modo di notare, non sono molti i chitarristi che ho reputato superiori al qui presente Steve Khan, e per un motivo che prescinde dal valore puramente tecnico della sua musica, sul quale sarebbe superfluo spendere ulteriori parole. Perché l'uomo di "Arrows", "Crossings" e altre notevoli produzioni (oltreché session-man di successo) è uno di quelli che hanno contribuito al rinnovamento della Fusion fra '70 e '80, uno dei primi a conferire alla propria musica una "cromatura" moderna, a sperimentare l'elettronica con attitudine sinceramente pionieristica, a fissare i canoni del nuovo "Instrumental" contemporaneo. Eppure la sua è una formazione classica, rigorosa, non freddamente "scolastica" ma comunque passata attraverso uno studio metodico dell'evoluzione della chitarra nel Jazz; lo dimostrano le sue pubblicazioni (si, perché Steve è un musicista che parla e scrive di musica), in particolare i suoi studi su Wes Montgomery e l'armonia Jazz, sul mercato già da diversi anni ma decisamente attuali.

Stare qui a ripercorrere l'intero novero delle sue collaborazioni sarebbe operazione folle quanto inutile; quel che mi preme è farvi riscoprire il significato di un'opera cruciale del Khan degli anni '80, un'opera che rientra nel progetto "Eyewitness" intrapreso nel 1981 e che contiene molte delle cifre distintive di questa "svolta" di cui vi parlavo; il cast coinvolto (lo stesso di "Eyewitness" e di "Modern Times", raro quanto eccellente live giapponese) comprende Anthony Jackson, Steve Jordan e l'ex-Weather Report Manolo Badrena. In "Casa Loco" (l'anno è il 1983) si toccano i vertici della Fusion del decennio, si ascoltano (assieme al padrone di casa) tre autentici fenomeni dello strumento e si ha modo di godere appieno della formula intrigante ed "esotica" del nuovo Khan, più che mai lontano, qui, dalla lineare razionalità di un lavoro di pura routine. La Gibson del leader è, naturalmente, l'indiscussa protagonista di questa originalissima formula, ma il contributo degli altri tre è fondamentale, direi imprescindibile per la riuscita dell'album; Jackson costruisce linee di basso continuo che sorprendono per libertà e creatività, Jordan lo asseconda inventandosi improbabili e complicati "drive" batteristici, Badrena è "l'uomo in più" che garantisce quel sostegno percussionistico irrinunciabile per la Fusion esplicitamente "caraibica" di Steve. All'uscita del disco, peraltro, diversi critici si sbilanciarono rintracciando fra i solchi dell'opera persino echi dei Police, e riconoscendo in Andy Summers il principale ispiratore - se ne è esistito uno - del Khan "nuova maniera"; io sottoscrivo in parte questa interessante lettura, salvo non esagerare in certi paragoni, e semmai ne ricaviamo un'ulteriore conferma di come il Rock sia una realtà a cui i jazzisti hanno sempre guardato; aggiungerei poi che, in un pezzo come "Penetration", Steve si richiama palesemente al Surf degli anni '50, alla sua spontaneità e alle sue tipiche tonalità minori, regalando qua e là squarci di selvaggia potenza chitarristica che mai ci si aspetterebbe di trovare in un disco del genere.

Un disco che parla la lingua di isole e sconosciuti atolli lontani, che ha il fascino di luci isolate su una spiaggia di notte, intenso e coinvolgente per tutta la sua durata: si comincia con l'elettronica radicale di "The Breakaway", drum-machine e percussioni a sostenere frammenti chitarristici e riverberi asettici, spettrali, geometrici. Il classico cazzotto nello stomaco per i puristi (si tenga presente che era l''83, e in quello stesso anno Miles cominciava, ma ancora con certa discrezione, ad introdurre rifiniture "sintetiche" in un album come "Decoy"); un antipasto di tre minuti, comunque poco rispetto a quanto doveva ancora venire. Perché con i quasi tredici minuti della title-track si sale decisamente di tono, e atmosfere "scure" e misteriose prendono il sopravvento; indescrivibili, nella seconda parte, le progressioni di Steve Jordan mentre chitarra e basso dialogano sottovoce sullo sfondo (ah, le urla tribali che si ascoltano di tanto in tanto, qui come negli altri pezzi, sono di Badrena - tanto per rendere ancor più inquietante l'insieme). "Some Sharks" e "Uncle Roy" sono, a diverso titolo, vetrine d'esposizione per la velocità e la perizia performante di Khan, notevole nel saper mantenere un fraseggio "educato", coerente e pulito in un contesto tanto "progressivo" in quanto a qualità sonora; ma il vertice della sperimentazione è forse nella conclusiva "The Suitcase", una delle composizioni più note in assoluto del chitarrista, sia per il lavoro d'alta scuola di Jackson (da bassista vi assicuro che suonare certe scale sulle note alte - laddove i tasti sono più stretti - è qualcosa di una difficoltà unica), sia per la varietà dei registri che Steve riesce ad esplorare nell'arco di soli cinque minuti: un pezzo di mirabile sintesi, dunque, capace di riassumere un po' tutte le facce del Khan strumentista.

Di sicuro non avrete da annoiarvi, insomma...

Buon ascolto.

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