Uno con quel nome non poteva far altro che cinema, ma questo McQueen oltre ad avere un diverso colore di pelle, sta dietro e non davanti la macchina da presa. Artista poliedrico, appassionato di scultura, fotografia e arti in genere, McQueen ha raccontato il carcere e la battaglia civile dell'uomo solo in "Hunger" (2008), poi le ossessioni compulsive del sesso in "Shame" (2011). Il suo terzo lungometraggio, quel "12 anni schiavo" che ha messo insieme 3 Oscar, è un altro tassello di cinema in cui il regista inglese indaga e scava il corpo, la mente e l'animo umani.
1841, Stato di New York: Solomon Northup (un eccellente Chiwetel Ejiofor) è un uomo libero con una moglie e due figli. L'opportunità di un nuovo impiego lavorativo diventa ben presto un'odissea di dolore e disperazione: lontano dai suoi cari passa dodici anni della sua vita da una piantagione ad un'altra, da un lavoro ad un altro, da un padrone ad un altro.
Il tema della schiavitù, dell'uomo in catene e la condizione degli afroamericani sono alcuni dei "leitmotiv" filmici degli ultimi anni. Affrontati da vari punti di vista e attraverso differenti stili, hanno caratterizzato il lavoro di molti volti di Hollywood: Tarantino con "Django Unchained", Spielberg con "Lincoln", Lee Daniels in "The Butler", Tate Taylor nello splendido "The Help" fino ad arrivare a "Selma" di Ava DuVernay. Negli anni in cui riemerge forte il grido di dignità della comunità nera in America, questi temi sono tornati ad essere ineludibili e fonte di ispirazione e impegno anche per nomi di primo piano del cinema mondiale: nel solco di questa analisi della condizione degli afroamericani, "12 anni schiavo" è il titolo che più di tutti anticipa il problema e quello che forse più degli altri scandaglia da un'angolatura antropologica/storica la materia in questione. McQueen porta in scena la vita di lavoro nei campi, le situazioni di sfruttamento giornaliero, l'assuefazione al dolore e dipinge un affresco che è prima di tutto storico. Di rado la vita nella realtà schiavista delle piantagioni era stata così dettagliatamente raccontata per il grande schermo.
Steve McQueen per la prima volta si tira indietro sulla sceneggiatura (curata da John Ridley) che non è elemento basilare del film. A voler estremizzare si può affermare che "12 anni schiavo" non ha una trama ben precisa: è un susseguirsi di avvenimenti e situazioni vissute sulla propria pelle da Solomon divenuto "Blat". Un po' come il povero Balthazar di Robert Bresson, Solomon cambia casa e "amici" per rimanere sempre nella sofferenza, fisica e mentale. E' questo uno degli aspetti più riusciti del film: il racconto di McQueen non è mai attenuante bensì mette in mostra una durezza che ha i tratti "europei". Pur essendo un lungometraggio che pigia molto sulla drammaticità, McQueen non cerca mai il sentimentalismo fine a se stesso e la durissima sequenza delle frustate a Patsey (una straordinaria Lupita Nyong'o) è un pugno nello stomaco che non lascia spazio alla speranza. In "12 anni schiavo" i momenti di pietà per il protagonista sono pressochè assenti. Riuscita in questo senso è anche la scelta di non mostrare rapporti d'amicizia tra gli schiavi, tutti troppo presi a cercare di sopravvivere per poter pensare ad aiutare il prossimo. Patsey è anch'essa elemento di rottura e non conciliante: oggetto scabroso del desiderio per lo schiavista Edwin (un grande Michael Fassbender) ma anche veicolo di ulteriori prove morali per il povero Solomon. (SPOILER - da notare il "contrappasso" che dovrà subire: prima rifiuta di uccidere Patsey come lei gli supplica, poi sarà lui a frustarla per volere di Edwin).
La terza opera di McQueen è un manifesto di classicità. Soffre di un eccessivo didascalismo di trama e sceneggiatura, ma è l'impianto del film a far parlare prima di tutto il lirismo delle immagini, dei corpi e dei volti segnati dalla fatica e rigati dalle lacrime. Quei volti senza i quali la pellicola non avrebbe avuto lo stesso impatto: "12 anni schiavo" è innanzitutto un film di attori e McQueen si conferma un grande attrattore di prove attoriali, oltre che cineasta dotato di indubbio talento registico e di messa in scena (da notare i diversi stacchi di montaggio dal retrogusto malickiano).
Senza voler essere un'opera magniloquente ma ugualmente impregnato di classicismo d'annata, "12 anni schiavo" si configura come uno dei titoli storico/biografici/politici più riusciti degli ultimi anni. McQueen non disegna la dicotomia neri-buoni, bianchi-cattivi. Lavora sulle ferite, sui corpi, sulle debolezze dell'essere umano. La sua non è un'opera di protesta contro "l'oppressore bianco", ma un più ampio affresco che ci invita a considerare cosa sia l'umanità nella sua interezza.
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