Ascolto "Drumming" periodicamente, come una terapia.
Mi rassicura saperlo sempre lì, a distanza di un "play". Ogni volta che cala quella nebbiolina uniforme, e il pensiero sembra essere sul punto di impaludarsi tra le quotidiane sciocchezzuole, ebbene, allora mi pare il momento di rimescolare le carte. E infilarmi in un caleidoscopio lungo 56 minuti, senza mai sapere la figura che mi verrà in sorte di contemplare.
Le discussioni su Steve Reich avvengono generalmente in contesti accademici. C'è una valanga di cose colte da raccontare sul minimalismo, sul ripetitivismo, sul '68 (Reich nasce nel 1936, e vive tuttora). E John Cage, il primo a disimparare, a suonare le brocche d'acqua. E giù così, per le algide sinuosità di Philip Glass, o i processi di generazione aleatoria di Terry Riley. C'è da riempirne di scaffali. Questi musicisti, tutti americani, hanno marcatamente caratterizzato il secolo andato, delineato percorsi di decostruzione sonora dagli esiti multiformi e tuttora assolutamente non esauriti, in qualsiasi distretto della musica. Reich in particolare ha saputo produrre influenze trasversali, diventando autore di culto per DJ remixers particolarmente arditi. Ma torniamo a noi.
"Drumming" si compone di quattro lunghi brani. Più esattamente, un unico afflato. Il tempo è imprecisato, il luogo è una landa sterminata e primordiale, invasa da ogni sorta di percussione. Tamburi d'ogni genere, xilofoni, glockenspiel, marimbas, fischi, ottoni, in cui s'intarsiano tenui flauti, e voci arcane. Più esattamente, un arcano rito orgiastico, oppure il canto degli angeli, fate voi.
L'idea germinale di Reich è riassunta nel "phasing". "Ho scoperto che la musica più interessante in assoluto consiste semplicemente nell'allineare i loop all'unisono e lasciarli uscire lentamente fuori fase tra loro" (Steve Reich)
E allora via, mille battiti in sincronia. Uno stormo di uccelli, un respiro corale che invade la mente, sin dalla prima traccia, "Drumming Part 1", un pandemonio tribale. L'esperienza d'ascolto è totalizzante, l'urgenza dell'abbandono è assoluta. E quando il processo ipnotico è già irreversibile, i loop si sfasano, e quei mille battiti scivolano l'uno sull'altro, quasi impercettibilmente. Lo stormo è lassù, all'apice, e proprio allora gli elementi si combinano a generare nuove figure. Il tutto avviene con lentezza inesorabile. Un'esperienza poetica intensissima, due amanti che si incontrano, si attraversano, si rinnovano, il feto che si separa dal corpo che lo ha generato, restandovi però fatalmente attaccato. I momenti in cui il "phasing" si svolge, mi sembrano essere il paradigma della creazione.
I frammenti sonori perdono la loro consueta identità. "Drumming Part 2" è percorsa da una successione di suoni che si depositano, lievi, sul substrato percussivo. Sono voci, ma talmente eteree da aver smarrito la provenienza umana, quando intonano un fraseggio sommesso, quando imitano il suono delle percussioni.
La febbre sale, solennemente. Sempre più chiara si disvela l'idea di Reich, basata sulla variazione del ritmo, sulla sostituzione delle battute con le pause, sulla mutazione timbrica. Ciò che è figura si tramuta in sfondo, è il meccanismo diabolico che ritroviamo in un quadro di Escher: qui tocca all'orecchio restituire al cervello la trasmigrazione dei punti di riferimento. Ogni cosa è sfuggevole e caduca, eppure dannatamente profonda.
"Drumming Part 3". Eccolo, il glockenspiel, un interminato tintinnio, ancora imperniato sulla desincronizzazione progressiva dei loop. Se sono riuscito finora a trasmettere qualcosa del Reich-pensiero, siete già in grado di immaginare molto più di quanto potrei raccontarvi di questa traccia. Un lungo mantra composto da fischi va ad innestarsi negli interstizi del tin-tin, e un paio di smottamenti ritmici fanno temere che la nostra cara Terra stia cominciando a girare al contrario. La vertigine non è adesso più un impressione, ma uno stato esistenziale.
Il lunghissimo preliminare è concluso. Il cervello ha deposto le armi, ora si offre inerme al conclusivo, dolcissimo martirio. "Drumming Part 4" è la sublimazione, un orgasmo efferato che a un certo punto pare voler trascendere la carne. La furente ricerca dell'extracorporeità è affidata ad un vero e proprio baccanale percussivo, intagliato da suoni più acuti. Come se tutti gli animali della giungla emettessero i loro versi, nessuno escluso, anche i minuscoli, esotici insetti.
Il brano termina con una sincope improvvisa, stroncato dalla sua stessa foga. Un trauma, e un sollievo. Di certo, un profondo, ebbro straniamento, e un alone di incompiutezza deliziosamente umano.
Come tutte le espressioni profondamente anticonvenzionali, quest'opera usa un linguaggio elementare, libero da costrizioni.
Nonostante la raffinata, maniacale ingegneria compositiva, "Drumming" parla dritto all'uomo: è la musica del cuore che batte, del seme che germina, della paura, della gioia. Ma la cifra essenziale sta senza dubbio nello stravolgimento del ritmo canonico (1, 2, 3, 4/ 1, 2, 3, 4). "La mia idea è che quando scrivi materiale con un grande numero di ripetizioni allora devi costruire una certa indeterminatezza ritmica, che deve portarti a chiedere «dov'è l'uno». . . Un ritmo così generato produce instabilità, ma soprattutto permette all'orecchio di ricostruire la musica percepita in modi diversi" (Steve Reich)
Orbene, Reich trasfigura il ritmo, crea una nuova entità, fluida e indeterminata, e la inietta endovena. Lentamente. Chi mette piede a Drummingland apprende che tutto può divenire altro. Gli accenti, le priorità, il percorso. E'un sistema nuovo, il Sole non è più un perno immobile, ma gironzola tra i pianeti e li illumina uno ad uno, nelle distese, nelle crepe. E il turbinio di meteore e satelliti. Ogni corpo sa essere centro. E'una perenne meraviglia, "il tremendo remare verso Dio". E'l'abiura del ritmo, il diniego di Nostra Signora Abitudine.
Ascolto "Drumming" periodicamente, come una liturgia.
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