Steve Von Till, voce e chitarra dei Neurosis, giunge nel 2008 alla sua terza prova solista. Se "As the Crow Flies" fu la sorpresa e "If I Should Fall to the Field" qualcosa di talmente bello e profondo da strabiliarci, questo "A Grave is a Grim Horse" è la conferma: la conferma del talento di un artista autentico, un vero eroe dei nostri tempi.

Guai a sottovalutare l'arte del Von Till cantautore, che non deve in nessun modo esser considerata un semplice svago, l'appendice intimistica, il surrogato dei suoi monumentali Neurosis: il primitivismo di quest'ultimi si sveste della corazza elettrica e dell'irruente tribalismo che li caratterizza e si riversa dolcemente nelle intercapedini di una musica intima, fra i solchi di una chitarra appena sfiorata e di una voce dal timbro caldo e profondo. Ma le lacerazioni interiori, le sfibrature dell'anima, il talento visionario rimangono tali e perfettamente riconoscibili.

Il latrato di Mark Lanegan, l'epica solitudine di un tardo Johnny Cash, l'allucinato disincanto del Michael Gira degli Angels of Light, e non solo: tutta una tradizione di cantautori americani che ha origine agli albori del mondo e percorre la storia fino ai giorni nostri, tutto questo scorre nelle undici ballate che compongono "A Grave is a Grim Horse", un viaggio che parte dal terriccio umido dei campi di grano e giunge fino al chiarore tenue di una pallida luna in un cielo notturno.

La chitarra desolata e il talento vocale di Von Till, si diceva, sono l'asse su sui si sviluppa il discorso, un discorso fatto di sfumature e dettagli che si rivelano poco a poco: una placida cavalcata per paesaggi interiori e crepuscolari, rischiarata sovente da un violino, da un organo e poco più. La voce sporca e lievi interveti rumoristici, relegati in una dimensione sottocutanea, sono gli unici elementi a richiamare le nevrosi da terzo millennio del progetto madre.

Solo a tratti l'elettricità torna a sporcare i chiaro-scuri di un'opera fuori dal tempo, così atavica da toccare la fine del tempo stesso. E' il caso dell'epica title-track, che apre l'album al fragore di un blues apocalittico, sorretto da chitarre distorte e dalla marcia desolante di una batteria in una delle sue rare comparsate.  

Ma è solo il polverone di un attimo, già la seconda traccia, aperta da violini, ci conduce in una dimensione intima e fragile: è la clamorosa rivisitazione della struggente "Clothes of Sand" di Nick Drake.  

Ma il Von Till interprete non si ferma qui, bensì osa abbracciare i sempiterni dolori dell'anima umana cantati in un passato più o meno remoto da Mickey Newberry, Townes Van Zandt e Lyle Lovett: un Von Till ormai maturo che non teme di confrontarsi con i classici, più o meno noti, della tradizione americana. Farli propri come solo i grandi sanno fare.

E non si dica che il Von Till autore sia da meno: la penna di Von Till scivola sempre ispirata, scorrevole, carezzevole. Si guardi in particolare a brani come "Valley of the Moon" e "Gravity", veri apici concettuali ed emotivi dell'opera, non a caso posti a metà e a conclusione del tutto. 

"What is done is done, What is gone is gone" sono le ultime, (s)consolanti parole; parole strozzate, ostacolate dal groppo in gola e seguite di poco da tenui violini chiamati a chiudere l'album. Un album che finisce per lasciarci in bocca il sapore amaro dei singulti di un pianto interiore che non sa trovare pace se non nella rassegnazione.

Fra la saggezza di chi apprende e la fragilità di chi comprende, Steve Von Till è in grado di confezionare una gemma di uno splendore raro per i nostri tempi, offuscata solamente da una lieve monotonia, nei toni e negli umori, che alla lunga può stancare le orecchie meno allenate.

Ma che importa, mi chiedo io, quando ci si trova innanzi a manifestazioni dell'anima di una tale autenticità?

Ci vedremo tutti nella Valle della Luna, amici. La Fine è un sinistro cavallo...

...da cavalcare...

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