Domenica sera, quasi mezzanotte. Le strade del paesotto in Brianza sono deserte, l'aria è pungente. In sala eravamo nove, complici le restrizioni, ma tre erano ragazzi volontari che dopo aver strappato i biglietti si sono appollaiati nelle ultime file a rivedere il film. Sul muro sgarrupato della strada di fronte all'oratorio la scritta generazionale “Produci consuma crepa”. Ci avviamo verso l'auto, proprio davanti al graffito, e per una volta nella vita non sono sicuro di sapere cosa penso di quello che ho appena visto.

Nessuno può dire che non sia bellissimo da guardare, nessuno può dire che non ci siano momenti intensi, personaggi ricchi, belle canzoni, tanta musica, suggestive coreografie. Le due ore e quaranta scorrono via veloci (si fa per dire), non c'è un momento di stanchezza che sia uno, a volte gli occhi strabuzzano per i caleidoscopi di gonnellone colorate che roteano frenetiche sullo schermo, per gli intrecci di corpi, per l'energia debordante dei protagonisti. I seni e i sorrisi, gli scenari urbani e le balere, i baci rubati e i coltellacci.

Eppure, avrò tirato fuori dieci volte il cellulare per controllare il risultato di Atalanta-Inter. E non mi sono mai sentito in colpa per essermi perso qualche secondo di putiferio artistico. No. Forse non capisco davvero fino in fondo il genere, forse implicitamente tratto con sufficienza questo Spielberg senile. O forse no. Forse ho involontariamente colto il difetto del soggetto e l'ulteriore carenza del rifacimento.

Il musical vive di grandi campiture, intrecci laschi che chiedono di lasciare spazio al ballo, alle canzoni. E quando il ragazzotto si innamora ci vuole un bel brano, quando la tipa fa capire che ci sta, un altro... Si va avanti così, con grandi blocchi tematici che in fin dei conti annacquano un po' l'intensità della narrazione. Mi si dirà che in un film del genere non si può prescindere dalle coreografie, dalle canzoni. Vero, siamo d'accordo. Ma allora qui c'è qualcosa che non va, se puntualmente la mano andava a controllare se qualcuno avesse segnato.

Mi viene in mente il concetto di manierismo. Il vecchio Steven non sente il bisogno di dire sostanzialmente nulla di nuovo, di diverso, di attuale rispetto a quanto fatto nel film di sessant'anni fa. È una pellicola del 1961 nell'essenza, del 2021 solo nella forma, nei colori, nella definizione. Nella tecnica insomma. Un aggiornamento tecnico-tecnologico che non ha una virgola da aggiungere a questa storia immortale. E allora forse, pur non essendo appassionato del genere e non conoscendo bene l'altro film, ho colto in quelle coreografie lussureggianti un'assenza di freschezza, perché tutte imperniate su musiche e temi che hanno già avuto sessant'anni per decantare.

Al cinema, non può essere un semplice balletto quello che ti conquista. Non basta. Ci vuole forza nella visione, ci vuole l'intuizione geniale, quasi una violenza psicologica nell'accaparrarsi lo sguardo, avido ma scostante, di chi sta in sala. Qui manca tutto questo. Ogni cosa è estremamente rassicurante e telefonata: anche la morte, anche la tragedia. Perché l'autore non ha più fame, non ha i nervi per stupire e turbare il suo amato e coccolato pubblico.

Se un regista, un uomo che dovrebbe osservare il mondo prima di narrarlo per immagini, non sente la necessità di aggiornare una storia dopo tutti questi decenni, ma si concentra solo sull'estetica (nel senso più frivolo) e sulla tecnica (la regia è squisita, va detto), be' allora penso che abbia smesso di guardarsi intorno e ormai si guardi solo allo specchio. “Quanto sono bello”.

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