Steven Wilson è indubbiamente uno degli artisti più attivi, brillanti ed eclettici degli ultimi 25 anni. Il suo quarto album solista esce a distanza ravvicinata con i precedenti (ed osannati) due album: Hand. Cannot. Erase., un nome che è tutto un programma. Come ogni anno, si tratta di uno degli album più attesi da parte di un pubblico sempre più esteso, ma dopo il successo dirompente di The Raven That Refused To Sing (2013) Wilson dovrà veramente stupire per non far percepire quest'album come un passo indietro.


Il primo brano, First Regret, parte in sordina con qualche campione, per poi lasciare spazio ad una semplice composizione pianistica audacemente filtrata, con tanto di percussioni elettroniche in sfondo, una cosa non nuova per Wilson, ma che non è certo tra le sue più frequenti. Con 3 Years Older si inizia a muovere le acque. Uno struggente intro di Mellotron Strings è interrotto bruscamente da un riff simil-Rush in metro alternato. Si nota subito la conferma delle devastanti doti di ogni singolo membro della band, giacché si susseguono le peripezie di Marco Minnemann alla batteria, un assolo di basso di Nick Beggs e uno di chitarra di Guthrie Govan. I toni poi si spengono e rimangono solo chitarra acustica e basso. La voce di Wilson debutta, più asciutta ed acuta dello standard, su linee di sessantiana memoria. Dopo un paio di ritornelli rientra l'estro della band al completo, e ben presto anche Adam Holzman ha modo di esibirsi in un ricco assolo di piano. Il riff viene ripreso più volte con vene via via differenti, dall'inquietante al roseo, con qualche breakdown ed assolo aggiuntivo. Sicuramente un buon parco giochi per qualche jam live, ma che per la verità su disco sa forse un po' di tirato per le lunghe.


Segue la titletrack, Hand. Cannot. Erase, forse il brano più pop della carriera di Wilson dai tempi di Stupid Dream, tralasciando qualche prodezza coi Blackfield. Linea vocale forte e orecchiabile, testo deliberatamente sentimentale, ma attenzione, brano in tempo dispari nemmeno dei più comuni, schitarrate inaspettate e qualche parvenza di assolo di basso. Un brano sicuramente piacevole, apparentemente semplice, perfetto per un singolo intelligente e gradevole, abbordabile, al tempo stesso. Perfect Life, già rilasciata in un video musicale settimane prima dell'uscita dell'album, presenta fin da subito sonorità pressoché inedite per la carriera di Wilson (il che è tutto dire). Suoni triphoppeggianti atmosferici uniti a percussioni industriali e una narrazione ad opera di una voce femminile. Il brano ci riporta a tempi fantastici e ricchi di nostalgia, a livello del concept. Si inizia a delineare meglio la storia raccontata nell'album. Ben presto Wilson inizia a cantare una melodi eterea, incastonandola in un crescendo a livello di saturazione dell'arrangiamento che lascia poche speranze di non rimanere profondamente emozionati, con bassi potenti, accordi strappalacrime e visioni del paradiso. Con un momento di spotlight per lo stick il brano si spegne lentamente per poi concludersi del tutto.


Routine torna alle durate estese del secondo brano, iniziando ancora con una voce asciutta ed acuta, accompagnata dal pianoforte di Holzman. Dopo un momento di memoria post-rock, subentra per la prima volta Ninet Tayeb, cantante israeliana assoldata da Wilson per qualche performance sul suo quarto album solista. Inedito è l'intreccio tra la sua voce e quella di Wilson, in una delle tipiche fasi di lallazione talvolta inserite da Wilson nei suoi album. In modo del tutto inaspettato fa la sua comparsa anche una voce bianca, ma la sua apparizione è fugace e lascia spazio ad un arpeggio di chitarra acustica inquietante, che si arricchisce presto di ulteriore strumentazione per poi lasciare spazio ad un assolo di basso e poi di chitarra. Torna il piano con Ninet, che canta la noia della routine tipica femminile. Ben presto l'atmosfera esplode e la cantante può librarsi su inedite vette, prima che tutto ricada in un arpeggio elettrico che accompagna ancora la voce di Wilson fino al termine del brano. A conti fatti è questo il primo brano abbastanza tipicamente wilsoniano.


Home Invasion inizia in modo inquietante, con un Mellotron sottile e teso inaspettatamente devastato da un irregolare riff a base principalmente di basso e batteria. Il groove del piano elettrico seguente non è descrivibile a parole. Dopo un po' di peripezie su un simile ritmo viene proposto un altro riff di piano elettrico che conferma il momento di particolare ispirazione in merito. Presto entra una filtrata voce wilsoniana, la cui scarsa melodicità si contrappone con la dolcezza del ritornello seguente. Regret #9 inizia in modo totalmente connesso al termine del precedente pezzo. L'intro è affidata a dei bassi sintetici coadiuvati da un ritmo di batteria ben presto sovrastato da un assolo di Moog di rara sapienza, che si divide il pezzo con un assolo di chitarra di simile caratura, segno che Govan non ha perso lo smalto, e anzi, se posso permettermi ha addirittura acquisito maggiore gusto che nel precedente lavoro con Wilson. L'ultimo minuto è lasciato ad un'atmosferico outro di piano e qualcosa che sembrerebbe un mandolino.


Col botto inizia anche Transience: un arpeggio di chitarra con dei bassi sintetici di Taurus da spavento. La voce di Wilson si muove su terreni che ricordano a tratti quelli calcati nell'unico album degli Storm Corrosion. Con un ritornello azzeccato per quanto inaspettato si concludono presto i due minuti di questa piccola perla. Ancestral, che con i suoi oltre tredici minuti rappresenta il pezzo più lungo dell'album, ci riporta su terreni di proprietà dei Massive Attack, poi solcati anche dal flauto (assai meno presente del solito) di Theo Travis. L'atmosfera è decisamente inquietante e tale rimane a lungo, con arrangiamenti e passaggi particolarmente marci, accompagnati sempre da un bel groove elettronico, misurato ed evocativo. Ben presto si fa largo una linea vocale spettacolare, i toni si alzano, entra la band al completo e avvengono cose che sarebbe inutile descrivere. Un momento di grande tensione sfocia in un assolo di chitarra a dir poco orgasmico, ad opera di un Govan quantomai ispirato. Un vero peccato però che questa sezione non sia stata affidata a Ninette, come era accaduto in uno snippet uscito mesi prima della pubblicazione dell'album. La cantante si presenta però dopo l'assolo, duettando brevemente con Wilson, prima di lasciare spazio ad una sezione dal ritmo serrato, dall'atmosfera inizialmente più rilassata, ma che viene presto riportata a tensioni pericolose da un arrangiamento più movimentato e teso, che dà presto adito ad un breakdown seguito da una sezione in crescendo ed accelerando, la più pesante dell'album, decisamente ansiogena. L'ennesimo breakdown vede suoni di piano elettrico filtrati all'inverosimile con un accompagnamento di batteria jazzeggiante e qualche schizzo di flauto qua e là. Riparte poi la pesantezza caratteristica della precedente sezione, con qualche slancio chitarristico in più. Il brano termina poi con forza.


Happy Returns presenta subito dei suoni assai atmosferici ed armonie intriganti. L'entrata in scena della voce di Wilson è gloriosa, con una notevole linea vocale e un accompagnamento di piano misurato ma di grande effetto. La seconda strofa è più satura, ma di altrettanto spessore emotivo. Memorabile è anche la tessitura di chitarra e coro che segue. Dopo una sequenza di lallazione ricompare l'estrosa chitarra di Govan, che si libra magistralmente sugli accordi sempre più celestiali del pezzo, per poi concludere tutto in modo piuttosto inaspettato. L'outro del pezzo sfocia nella finale Ascendant Here On..., che riprende al piano gli accordi di Perfect Life con l'eterea aggiunta di un coro di voci bianche, per un finale in sordina.


Ma tiriamo le somme.

Da Steven Wilson non si sa mai esattamente che cosa aspettarsi, se non, in genere, un ottimo album. È tuttavia impossibile non farsi alcuna aspettativa in merito, e quelle di chi sta scrivendo sono state deluse. Non in senso necessariamente negativo, ma semplicemente non era quello che mi sarei aspettato, anche se avevo comunque un'idea molto vaga di ciò che mi sarei trovato davanti. È sempre difficile dare un giudizio al primo ascolto, ma in questo caso mi risulta praticamente impossibile, perché sono spiazzato. Cercherò pertanto di abbandonare per quanto possibile un'attitudine giudicante in favore di una più meramente descrittiva.


Hand. Cannot. Erase. è probabilmente l'album più eterogeneo di Steven Wilson. Si legano senza troppi problemi brani oscuri e celestiali, semi-elettronici ed acustici... come sempre del resto, ma con una sfumatura un poco meno naturale, in questo caso. Molti meno che in passato sono i riferimenti fusion, in favore di un sound più diretto e mediamente più semplice, incentrato maggiormente sui suoni e sul concept, sul quale non mi pronuncerò fino all'analisi più approfondita dei testi. Degna di nota è anche l'entrata in scena di una voce femminile, non certo qualcosa di frequente nella discografia di Wilson, considerata universalmente. Le performance vocali, nonostante qualche momento di dubbio gusto, raggiungono picchi di assoluto spessore, gli assoli di chitarra sono clamorosi come non mai e tutti i componenti del gruppo si esibiscono in modo a dir poco degno. Meno presenti sono i fiati di Travis, a riprova della decadenza dell'influenza fusion, che potremmo dire quasi sostituita per prominenza da quella trip-hop. Trovate come quella delle voci bianche (e della stessa Ninet) sono forse poco sfruttate, ma fanno la loro porca figura quando compaiono. A dire il vero sono svariate le idee che potrebbero sembrare non sviluppate a pieno regime, per non parlare di una generale frammentarietà dei brani portata talvolta a livelli forse eccessivi. Ad una prima parte dell'album mediamente leggera e più spensierata segue una seconda decisamente più pesante ma soprattutto inquietante, eccezion fatta per qualche sezione e per gli ultimi due brani. Viene abbandonata la dilatata struttura imperante in The Raven That Refused To Sing in favore di brani in gran parte più brevi (e quelli lunghi per la verità sembrano spesso estesi in modo un poco forzato), talvolta anche brevissimi, poco più che intermezzi. Decisamente, in generale, possiamo dire che l'influenza diretta di un certo tipo di rock progressivo settantiano è molto meno prominente che nei precedenti due lavori, ma questo non significa che l'album ricordi Insurgentes, se non per qualche precisa occasione. E questo non può che fare piacere a tutti coloro che, come il sottoscritto, auspicano una continua evoluzione da parte di un artista, specie uno come Wilson.


Ci sarebbe ancora molto da dire, con troppe cose che potrei citare in modo solamente prematuro. Quello che mi limito a dire per ora, in quanto a giudizio, è che si tratta di un album piuttosto spiazzante, che rompe in gran parte col passato e che presenta delle performance di prima classe (come al solito), un concept interessante e degli elementi di novità assoluta per la ormai sconfinata discografia di Wilson. Il mio giudizio non può che essere positivo, anche se non posso nascondere un retrogusto amaro che devo ancora decifrare e che mi porta a considerare questo album quello meno riuscito rispetto almeno ai precedenti due lavori. Ma insomma, per i precedenti stiamo parlando di capolavori. Nel caso di questo Hand. Cannot. Erase. sto parlando al primo ascolto di un album fenomenale, e il giudizio è spesso destinato a salire con gli ascolti. Pertanto non mi resta che attendere e consigliare a tutti l'ascolto!


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