Avevo deciso di non tornare a recensire Steve Wilson, ma l'entusiasmo suscitato dalla sua ultima opera mi ha fatto cambiare idea. Anche se l'ho scoperto relativamente in ritardo, è riuscito a toccarmi come nessun altro album del musicista, compreso il progetto Porcupine Tree. Anche se gli standard elevati della produzione wilsoniana impongono cautela, posso personalmente considerarlo il suo massimo capolavoro, poiché alla perfezione tecnica, ormai clamorosa, si associa un disco maggiormente scorrevole e ispirato rispetto ai precedenti. In soldoni, è un'opera che si ascolta molto volentieri, nonostante la solita lungezza esagerata, riuscendo a trovare quella quadra che non è completamente riuscita in Grace from Drowning, del quale questo Hand. Cannot. Erase sembra sequel diretto. Ci sono diversi punti in comune: un concept di base che racconta l'alienazione e la discesa negli abissi di un'anima incrinata. In questo caso Wilson si ispira addirittura a un fatto di cronaca, la morte dell'inglese Carol Joyce, trovata nel suo appartamento a Londra solo dopo quasi tre anni dal decesso. Nonostante manchino riferimenti diretti, si capisce che l'album racconta la storia e le emozioni di Carol nel suo progressivo e inesorabile allontanamento dalla società, rappresentando anche una riflessione molto profonda sull'alienazione urbana e di come sia possibile essere completamente dimenticati. Una sorta di doloroso monito dei rischi dell'oblio.

Si parte come da copione con un clima solare e composizioni molto simpatizzanti verso l'universo pop, la title track è deliziosa e 3 Year Older sfiora quasi l'epico con i suoi 10 minuti vorticosi, dove parti e strumentali e cantato trovano perfetto equilibrio. Affiorano ombre del passato attraverso organi "emersoniani", ma d'altronde sappiamo che i dischi di Wilson pagano sempre tributo alla vecchia scuola del prog. Perfect Life prosegue una linea pop molto contemplativo-sognatrice, aggiungendo sonorità elettroniche ricercate, quasi trip-hop. Arriva in questa occasione anche una seconda voce femminile, forse la più grande novità del disco, che avrà assai più spazio in Routine, altri dieci minuti tra la malinconia e il sogno; la protagonista ha ormai tagliato qualsiasi contatto con l'esterno e vive un'alienazione progressiva, meccanica, interagendo solamente con la sua abitazione. Questo concetto viene sublimato nelle successive Home Invasion e Regret #9, le migliori tracce del disco, sia sul lato tecnico che concettuale. L'umore comincia a virare verso il basso e si avvertono i segni di una instabilità inesorabile provocata dall'isolamento. Un inizio spiazzante, quasi metal, apre verso una sorta di omaggio struggente agli anni settanta, dove Wilson canta come sia possibile utilizzare il computer per colmare i vuoti esistenziali, scaricando una vita ideale, ma la fine della giornata rappresenta un amaro ritorno alla realtà, dove rimangono solo le stelle da contemplare attraverso un finestra. Davvero efficace, originale e toccante. Non da meno la lunga parte strumentale, in tastiera e chitarra elettrica, talmente incredibile da evocare l'ombra ingombrante dei Pink Floyd, non stranamente il chiodo fisso di Wilson. Forse derivativo, ma non è un traguardo che si raggiunge ogni giorno. Anestral arriva poco dopo, con i suoi 13 minuti di disperazione. Si trata sicuramente di un brano cruciale nell'economia concept del lavoro, una sorta di equivalente al femminile di Raider II, pretesto ideale per permettere a Wilson di scatenare tutte le sue ossessioni attraverso la psiche della protagonista. Da una prima parte malinconica e dimessa, ne arriva un'altra flagellata da ondate di violenza e rabbia. Anche qui assistiamo a uno splendido assolo in chitarra, ma l'impatto emotivo arriva negli ultimi, violentissimi minuti, un oceano oscuro che sembra rimandare alla stessa struttura meccanica di Routine, un grande tocco di classe che denota un'abilità compositiva veramente sopraffina. La chiusura del disco è invece decisamente dolce, quasi struggente, cullata da rumori ambientali e giochi di bambini. Il mondo esterno è sempre osservato e vissuto attraverso una finestra, prima della fine.

Hand. Cannot. Erase è per me il miglior disco nella carriera di Steven Wilson, riuscendo a trionfare in svariati aspetti. Racconta una storia commovente e piena di riflessioni non banali sull'alienazione, riuscendo a collegare l'ascoltatore con le emozioni della protagonista. Concilia ambizioni smisurate con una certa scorrevolezza, e finalmente la maestosità tecnica è asservita a idee compositive molto più chiare rispetto al passato. Eccezionale, quasi soverchiante la varietà stilistica, anche se spesso eccessivamente tributaria, ma amiamo Wilson anche per questo. Se siete in ritardo come me, fatelo vostro quanto prima.

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