Probabilmente non ci siamo ancora ripresi dall’ebbrezza causata dall’inatteso nuovo album dei Porcupine Tree uscito a sorpresa lo scorso anno e dal conseguente tour che ora si è perfino tradotto in nuova uscita live, ma bisogna andare avanti e mettersi in testa che il domani del Porcospino resta incerto e che la priorità per Steven Wilson sarà sempre la carriera solista. Pertanto l’immediato ritorno alla pubblicazione a suo nome non è affatto una sorpresa, anzi era scontatissimo. Di fronte però si trovava una platea intrisa di diversi individui dubbiosi sull’effettiva validità della proposta del nuovo materiale, in tanti non hanno granché apprezzato la strada decisamente pop imboccata negli ultimi due album (specialmente e più clamorosamente l’ultimo). Personalmente non li capisco, perché Wilson non si è certamente chinato alla spazzatura modaiola da Spotify che imperversa ormai da anni, quando ha fatto pop lo ha fatto sempre con la sua attenzione maniacale ai dettagli e alla scelta degli arrangiamenti. Sarà il solito snobbismo prog?
Non so, non mi interessa, non importa, ma se proprio non ci si vuole aprire a cose più leggere lo snob medio può consolarsi: qui si cambia rotta, l’approccio non è quello di un album pop (anche se lo spirito leggero riaffiora qua e là) e tornano ad essere più frequenti i brani lunghi; difficile tuttavia stabilire se si tratta di un ritorno al prog o meno, di scuro non suona come un “Grace for Drowning” o un “The Raven That Refused to Sing”. Quello che potrebbe forse ancora far storcere il naso a molti è la scelta, in linea con il precedente lavoro, di puntare prevalentemente sull’elettronica e sui sintetizzatori, Wilson non ha nascosto di trovarsi, in questa fase della propria carriera, più a suo agio e più ispirato quando compone con strumenti elettronici che a farlo con una strumentazione più classica; anche questo aspetto divide la platea, fra chi apprezza le potenzialità offerte dalla strumentazione elettronica e i puristi che invece la considerano un’impurità tornando ad invocare ogni volta le vecchie care chitarre (pensiamo ai Rush degli anni ’80 o ai Muse). Tuttavia queste soluzioni elettroniche non sono lasciate da sole e sono benissimo integrate dalla strumentazione più tradizionale, leggendo i crediti si individua una strumentazione nel complesso molto varia, in buona parte suonata dallo stesso Wilson ma anche da numerosi collaboratori. In un primo momento chiunque potrebbe aver pensato ad un ritorno a cose un po’ più vecchie, Steven è stato molto furbo ed abile a farlo credere: i brani proposti in anticipo come singoli promozionali sono stati proprio quelli più chitarristici, in più sono stati concentrati nella prima parte della tracklist, cosicché l’album rivela la sua vera natura nella seconda parte.
Sebbene le coordinate stilistiche non siano molte la varietà di soluzioni adottate è davvero notevole, anche per merito della già accennata vastità della strumentazione, ogni brano viene riempito a dovere in maniera piena ed esauriente, che i minuti siano tanti o pochi ognuno di essi lascia un notevole senso di riempimento e di sazietà. L’impressione è di non trovarsi mai di fronte ad un déjà vu, né per quanto riguarda il singolo passaggio né per quanto riguarda l’impostazione del singolo brano, ogni brano è veramente diverso da tutti gli altri, motivo per cui, piaccia o meno, il track by track qui serve.
“Inclination” colpisce con il suo beat artificioso e pestante in stile industrial sovrastato dall’incredibile sovrapposizione di suoni, rumori, riverberi e schizzi di varia natura, un qualcosa a metà fra l’angoscioso, lo psichedelico e l’etereo, indubbiamente uno degli episodi più spregiudicati e riusciti. “What Life Brings” è invece il brano pop dell’album, quello fresco e leggero, quello che rilassa con la sua melodia semplice ed essenziale, quello che farebbe idealmente con i Blackfield, quello che potrebbe essere visto come il passo falso ma invece non delude mai perché sappiamo che Wilson è anche questo e ci piace anche così. “Economies of Scale” è un elettropop minimalista che vuole suonare moderno ma non pacchiano, poggia interamente sul suo accarezzante beat elettronico e sul suo loop cullante ed ipnotico. Alla quarta traccia arriva un piatto veramente forte, “Impossible Tightrope”, che è un po’ il porto sicuro, quello che più riporta ai vecchi album e sembra scritto per garantire ampi consensi fra i puristi; è un prog-rock/jazz-rock dal ritmo incalzante ma allo stesso tempo caratterizzato da una melodia celestiale e paradisiaca, sembra proprio un vortice che ti porta in alto; il drumming frenetico, le chitarre irrequiete, il basso massiccio, persino fughe di sax e piano elettrico, ma anche qualche coretto angelico e un po’ di archi per smorzare la tensione. “Rock Bottom” poggia su un rock piuttosto alternative con la voce graffiante di Ninet Tayeb e i riverberi chitarristici a creare un’atmosfera vagamente shoegaze. “Beautiful Scarecrow” propone un’elettronica oscura ed angosciosa ma ricca di suoni, con il Chapman Stick pesantissimo di Nick Beggs a rendere ancora più inquietante l’atmosfera. La title-track ha il pregio di essere ripetitiva senza stancare, è basata su un loop di sintetizzatore ripetuto che crea un’atmosfera grigia e nebbiosa. “Time is Running Out” è quella che mi piace di meno del lotto ma è ampiamente rivalutabile col tempo, perché riesce agevolmente a passare dall’essere malinconica all’essere brillante, dal piano agile ma riflessivo al synth-pop quasi zuccheroso sospeso fra il moderno e gli anni ’80. “Actual Brutal Facts” è il brano che forse sorprende di più, propone un trip-hop inconsueto: il beat artificioso e regolare, i suoni oscuri, il cantato rappato e gutturale, i rumori abrasivi nella parte finale, potrebbe essere uscita da “Mezzanine” e non ci faremmo caso (in un recente video social Wilson ha mostrato proprio questo disco come consiglio per gli ascolti, non sembrerebbe proprio una coincidenza). La conclusiva “Staircase” è la summa perfetta del tutto, un viaggio di 9 minuti dove si gioca bene con l’elettronica in diverse sfaccettature, con i tocchi di chitarra ad accompagnare bene i synth e ancora una volta l’intervento di Nick Beggs col suo pestante Chapman Stick.
Ammetto che non è stato facile dare una classificazione e un’inquadratura a questo lavoro, avverto che potrebbero servire diversi ascolti per cogliere le piccole sfumature, perché sono tantissime e non si palesano così immediatamente, i primi ascolti saranno sostanzialmente di prova e potrebbero far pensare ad un disco “normale” e non così variegato, anche se a dire il vero il potenziale si scorge subito, è solo questione di mettere a fuoco, di analizzare per bene, un disco da ascoltare con il “microscopio acustico”. Poi però una volta completato il puzzle è un capolavoro che costringe a rassegnarsi e ad ammettere che Steven Wilson è ancora la personalità più influente degli ultimi trent’anni di musica. Qualcuno potrà chiedere se parlo di capolavoro per opinione personale o per sentito dire… Quando vedo che l’etichetta di capolavoro viene affibbiata quasi all’unanimità non so se fidarmi o meno, immagino che in tanti l’abbiano attribuita sulla base dell’opinione comune o altrui (anche se non credo sia il caso di questo disco), ma nonostante i dubbi iniziali dopo una lunga analisi mi sento tranquillamente di dire che fra ciò che ho ascoltato quest’anno nessuno ha saputo creare un puzzle migliore di quello di Wilson.
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