Oltre vent'anni. Tanto c'è voluto perché Steven Wilson forgiasse il suo capolavoro. Ventennio di lavoro intenso, in particolar modo con il suo porcospino, tra dischi belli (Up The Downstair, Sky Moves Sideways, Signify, In Absentia) e inspiegabili flop (The Incident, Deadwing).
Ma Wilson torna e fa le cose in grande, come se lavorasse sul serio per la prima volta, manda al diavolo tutte le ambizioni di classifica e sforna questo "The Raven That Refused To Sing", che riesce nell'apparentemente impossibile impresa di ridare un briciolo di identità al progressive rock, dando con imbarazzante semplicità un calcio a tutto quello che veniva chiamato "new prog", con un disco uscito direttamente dai ruggenti seventies.
Steven ci trascina nel fiabesco mondo di Gabriel e Sinfield. "Luminol" parte con una folle intro di quattro minuti e mezzo per poi addolcirsi, trasformarsi in dolce ballata e riprendere il brio iniziale alla fine, in una coda che, nel cuore dei fan, non può non ricordare la musica dei King Crimson di "Lizard"
La successiva "Drive Home" è una ballata tipicamente Wilson. Anzi, più bella. perché quell'intervento di archi che già rese immensa "Collapse The Light Into Earth" (sicuramente il miglior risultato precedente di Wilson in questo tipo di canzone) non può passare indifferente; il tutto conservando una melodia che coccolerebbe anche l'ultimo dei Directioners. Seconda parte assolutamente Genesisiana, con un lungo assolo di quelli che ne senti pochi, nella tua vita.
"Holy Drinker" fa meglio delle precedenti: inutile cercare riferimenti in un inizio così sfacciatamente e meravigliosamente Wilsoniano, segno di un artista ormai nel pieno della sua maturazione artistica. Ci incolla poi con sapienza, verso la metà, una parte flautistica che fa molto Ian Anderson, e Accompagna con le sue solite schitarrate. Poi ancora carezze e un finale intenso, violento e orrorifico. Brano perfetto. Ai primi ascolti Pin Drop lascia un po' perfetti, poi si scopre che ha un suo senso, bel brano pop e ben piazzato, ma comunque poco più che riempitivo. Ancora finalone assurdo, comunque. E quindi "The Watchmaker", col suo incastro di chitarre, col suo lirismo nostalgico, col suo lungo crescendo epico. Supper's Ready incontra Thick As A Brick. Meraviglia. Altra seconda metà clamorosa. La title-Track è il brano più favolistico del gruppo, intensa ballata col piano in primo piano (e voglio cinque stelline solo per questo gioco di parole, cazzo) e mai banali interventi orchestrali. Un po' Afterglow, Un po' Cadence And Cascade, Un po' Collapse, un po' Lazarus.
Troppi riferimenti che finiscono per denunciare l'originalità di un lavoro unico, contemporaneamente capolavoro di un artiste al culmine dell'ispirazione ed umile elogio ai grandi di un genere grande. Troppo isolato, in mezzo ai vari (e anche bravi, talvolta) Spock's, Marillion e chi più ne ha più ne metta, per essere ricordato come dovrebbe, insieme a lavori cui non ha nulla da invidiare, come Nursery Cryme o Close To The Edge.
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