Quando ascoltai “Happiness III” nel recente EP dissi che Steven Wilson non fa una ciofeca nemmeno quando realizza un brano pop. Tuttavia la cosa era abbastanza risaputa, Wilson non ha mai disdegnato sonorità pop-friendly e lo ha dimostrato in diverse occasioni, pensiamo ai Porcupine Tree di “Stupid Dream” e “Lightbulb Sun”, così come ai Blackfield, il progetto probabilmente più leggero di Wilson.

“To the Bone” non è una grossa sorpresa nella scelta di un approccio leggero e più semplice del solito, mentre lo è invece perché sperimenta sonorità nuove per Wilson, o meglio vintage ma sicuramente nuove per il suo sound. Egli infatti prende spunto da alcuni album di pop sperimentale o pop progressive realizzati negli anni ’80, da nomi come Tears For Fears, Talk Talk e Peter Gabriel. Un respiro ottantiano che però si integra perfettamente nel mood wilsoniano. Alcuni suoni di quel periodo si sposano alla perfezione con quelli tipici delle sue produzioni ed il risultato è che tutto suona tremendamente e tranquillamente wilsoniano, la mano di Wilson resta comunque evidente e anche quei suoni più vintage risultano comunque rielaborati, al punto da sembrare appieno un disco realizzato nei nostri anni. Se in dischi come “Grace for Drowning” e “The Raven That Refused to Sing” era riuscito ad attualizzare e far proprie sonorità anni ’70 qua ci riesce perfettamente con gli anni ’80.

Influenze che si scorgono già fin dalla prima omonima traccia, con quegli effetti percussionistici, quelle tastiere esotiche e quell’armonica che sembrano davvero presi in prestito dal Peter Gabriel di stampo world music solista. I Tears for Fears invece si possono scorgere nel crescendo d’intensità davvero da brividi sulla pelle di “Refuge”, un crescendo ben propiziato da tastiere ottantiane sempre più forti e armonica, un brano che poteva tranquillamente far parte di “The Seeds of Love”, non è difficile che tornino alla memoria brani in crescendo come “Swords and Knives” o “Famous Last Words”; ma non è tutto perché l’influenza del duo pop si fa sentire anche nel leggero ritornello di “Nowhere Now”, quelle chitarrine delicate e quelle tastiere appena tangibili a servizio di una melodia scorrevole e rilassata mi hanno riportato alla mente brani come “Advice for the Young at Heart” e soprattutto “Goodnight Song”.

Sonorità molto ottantiane anche in “Pariah”, con quelle pungenti tastierine elettroniche che stavolta sono a servizio di una melodia raccolta e malinconica, che richiama un pochino alcune cose fatte dai Marillion, prima di sfociare in un tremolo dal sapore post-rock. Sonorità un po’ diverse le troviamo invece in “Song of I”, che si butta perfino nel trip-hop, con evidente richiamo ai Massive Attack prima maniera, alcuni suoni mi hanno ricordato quelli di “Safe from Harm”. Tuttavia il brano che più ha spiazzato tutti è senz’altro “Permanating”, che con il suo incedere disco music in stile ABBA vuole mostrare che Wilson con la sua classe può permettersi anche un lato tremendamente catchy senza scadere nella shit-music del mainstream.

In mezzo però vi sono anche cose più strettamente wilsoniane: “The Same Asylum As Before” e “People Who Eat Darkness” recuperano alcune cose più easy fatte dai Porcupine Tree nel loro periodo interlocutorio ’99-2000, “Song of Unborn” è piuttosto vicina alle melodie soft dei Blackfield, “Blank Tapes” evidenzia una certa abilità nel comporre brani brevi ma ricercati, “Detonation” invece sembra essere una sorta di “then and before” dei Porcupine Tree, con la prima metà che ne ripropone i suoni spigolosi della seconda fase e la seconda metà che ripropone il sound psychedelic/ambient delle produzioni anni ’90.

Insomma, è un Wilson che si propone con leggerezza ma con classe, che guarda indietro ma anche avanti, “To the Bone” è sicuramente uno dei dischi dell’anno e occuperà una piazza d’onore nella mia classifica di fine anno.

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