Il cammino della musica leggera verso la definitiva consacrazione ad arte – meritevole cioè di affiancare con orgoglio e senza imbarazzo la tradizione musicale classica – è stato lento, difficile, irto di ostacoli; la conquista del meritato podio raggiunta con non poco sudore. Il debito dovuto al “king of rock’n’roll” o agli scarafaggioni d’oltremanica difficilmente potrà essere estinto, questo è ovvio. Ma all’interno di questo percorso, un altro – certo maggiormente silenzioso, per quanto più lungo, antico, sofferto – ha assunto nel tempo proporzioni socio-culturali mastodontiche e imprescindibili per la cultura melodica tutta. Oggi, alla luce di innumerevoli revival musicali, abituati come siamo a cibarci di crossover, intrisi di multiculturalismo e distrattamente appagati da tutto ciò che fa ‘ethnos’ – abbiamo solo una vaga idea di quanto aspra e dura possa essere stata la lotta che la musica nera ha combattuto per imporsi sul panorama mondiale. Ancora di più, ci scordiamo spesso di quella delicatissima fase in cui molti artisti black illuminati si sono ritrovati a combattere una lotta intestina – una vera guerra civile con la propria stessa tradizione – al fine di lasciar passare un messaggio lirico-melodico che fosse al contempo innovativo ed universale. Siamo a cavallo tra i Sessanta e i Settanta: il fuoco dell’estate d’amore divampa tanto velocemente quanto si spegne, estinto in parte dagli stessi personaggi che si erano affaccendati ad accenderlo. La speranza e la lotta fanno rapidamente posto alla delusione e ad amare riflessioni. C’è chi, da portavoce malgré lui della rivoluzione, si rifugia in una interminabile ricerca di chiarezza interiore (Mitchell); c’è chi da eroe senza tempo si trasforma in solitario vagabondo alla conquista di un’identità che sia subito nome (Crosby); c’è chi sente troppo intensamente l’inutilità di una vita che non sia urlo, esplosione, contatto con l’estremo (Hendrix, Joplin, Morrison). Sia quel che sia, ognuno batte la strada che i nuovi tempi gli impongono. Ma la musica black aveva ancora un conto da saldare, prima di potersi concedere il “lusso” di tali dolenti consapevolezze: il passo da compiere era quello della liberazione dai vincoli a cui il music business aveva piegato questi artisti, con la promessa di concedere anche a loro il posto di gloria già spettato ai cuginetti bianchi. Senza stare a scomodare il Davis di “Bitches Brew” – opera la cui portata socio-musicale trascende troppo i limiti della ragione umana per poter essere confinata entro una fiaba natalizia di “emancipazione nera” – a rigor di cronaca il primo nume tutelare di questo percorso ha nome Marvin Gaye, che con lo strepitoso What’ s Going On” (1971) – primo concept album sulla pace – aveva allontanato la musica nera tutta dalle pastoie commerciali della Motown di Berry Gordon Jr. (la casa degli artisti black degli anni Sessanta) Ma la cronaca è anche testimone del breve passo che intercorrerà tra questo evento spartiacque e la definitiva esplosione, l'anno successivo, di un altro figlio della gloriosa Motown - il quale illuminerà il pianeta con un disco meravigliosamente compatto e dal titolo ispirato: “Talking Book” (1972). Il signor Stevie Wonder – il più giovane ma anche il più dotato della premiata ditta di Gordon – la sua rivoluzione culturale l’aveva già in testa, forse da sempre; ed era anche la più semplice che si potesse immaginare. La sua musica della mente sarebbe stata il portavoce dell’unico messaggio universale davvero concepibile, quello che ha inizio e si conclude nel verbo divino. E sempre a Dio/Amore saranno dedicati i suoi splendidi capolavori degli anni Settanta, dal già citato caposaldo di “Talking Book” all’estasi mistica di “Music Of My Mind” (1972), dalle infinite dolcezze di “Fulfillingness’ First Finale” (1974) (la cui sola “Creepin” risusciterebbe un morto) ai più tardi fasti commerciali del capolavoro black & white di “Songs In The Key Of Life” (1976), passando per lo strepitoso omaggio all’ Onnipotente che è “Innervisions” (1973), il capolavoro tutto black. A queste inenarrabili visioni interiori è certo il caso di fermarsi, a meno che non si sia deciso di ignorare il tassello più compiuto e perfetto del puzzle che compone il volto di un artista straordinario. Nove tracce che vivrebbero tranquillamente di vita propria, se non fosse che riunite insieme concorrono a formare una delle più felici e profonde dichiarazioni d’amore che la musica popolare conosca. Infinite le sfaccettature assunte qui dalla parola amore: ora è elevazione a Dio (“Too High”, con il suo memorabile esperimento di vocoder nel bel mezzo di un’orgia funky; “Higher Ground”, blues-funk tirato e durissimo, in cui il messaggio di redenzione si fa sempre più forte; la morbida dolcezza melodica nella conclusiva, paradisiaca “He’s Misstra Know-it-all”); ora è amore per la donna, religiosamente sensuale (l’intrigante crescendo di “Golden Lady”) se non gioiosamente rassicurante (lo splendido gioco latineggiante di “Don’t You Worry ‘Bout A Thing”) o lancinante e universale (la struggente “All In Love Is Fair”); ora è amore per il proprio popolo (l’immortale inno alla sopravvivenza nel ghetto di “Living For The City”); ora profetica estasi mistica (l’incantevole giardino d’Eden in “Visions”) o predica in difesa delle giovani anime (l’incredibile e irripetibile gospel di “Jesus Children Of America”). Se la grandezza di “What’s Going On” è da ricercare nella magia che tiene insieme una lunga suite originata da un singolo, celestiale, motivo, quella di “Innervisions” è – al contrario – tutta nella sbalorditiva eterogeneità stilistica di un disco che di omogeneo ha una sola cosa: il pensiero – che trascende i sensi, pur saziandoli – di un’infinita preghiera di gratitudine a Colui che solo si è posto a fianco di un popolo nel cammino verso la liberazione. Black celebration.
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