Primavera del 1977. Un tredicenne già cresciutello entra nell'unico bar del suo paese dove ci sono un jukebox e un biliardo. L'esame di licenzia media si avvicina minaccioso e quel piccolo bar con il pergolato è il luogo giusto per godersi il meritato riposo dopo lo studio (eh sì, all'epoca si studiava anche per questo esame).
Prima di sfoggiare le sue precoci doti di colpitore, decide di investire la classica 50 lire, per scegliere tre brani che possano accompagnare adeguatamente la sua esibizione. Scorrendo cantanti e titoli, la sua attenzione è attirata dal nome di un artista americano che è sicuro di aver sentito alla radio: Stevie Wonder, quello di "Supertiscion", rammenta l'allampanato adolescente. Il brano lo ha ascoltato di sfuggita un paio di volte, ma sono bastate per imprimerlo nella memoria: la voce e ritmo sono di quelli che non si dimenticano.
Ma sì, diamo una scossa a questo vecchiume, pensa, vediamo com'è questa "Isn't She Lovely"; e nel frattempo si prepara a vedere l'effetto che farà sui suoi compagni, pronto a mostrare l'espressione di chi la sa lunga, di chi ne capisce. Ma, sorprendentemente, ecco uscire dalle casse sfondate dell'ingombrante scatolone il nitido pianto di un bambino: è un attimo, ma basta per suscitare ilarità tra avventori e compagni, che sfottono e protestano, invocando, poveri loro, i Collage, gli Homo Sapiens o, al massimo, l'hit del momento, "Ti amo". Colpito nell'orgoglio, il ragazzo si mette in disparte. Ma bastano un paio di minuti per essere rapito da quella musica incantevole, calda, vitale, che lui non sa ancora chiamarsi Soul; e poi il suono inconfondibile e celestiale di quell'armonica che gli rimane negli orecchi, che lo accompagna fino al momento di prender sonno.
Dopo quel giorno, Stevie "Meraviglia" quasi mai mancherà in una delle sue tre scelte; addirittura alcune volte sarà tris, con "Sir Duke" e "I Wish".

Le "Canzoni in chiave di vita", lo avrete capito, la "tonalità" della mia esistenza musicale l'hanno cambiata, e posso dire che da quel giorno la black music è divenuta per me indispensabile.
Solo a distanza di un paio di lustri da quella primavera del '77, però, compresi l'importanza fondamentale di quest'album, che rivaleggia per spessore con quello di Marvin Gaye, dopo che la passione scoccata quel giorno mi ha spinto a conoscere un po' di storia di quel genere. Non credo di sbagliare dicendo che con questo lavoro Wonder conduce la musica soul in una nuova epoca, senza che per questo le caratteristiche migliori della "musica dell'anima" si perdano. Una "rivoluzione" intelligente, quindi, che si inserisce nel solco che Gaye aveva così brillantemente tracciato e che nessuno, o quasi, era stato all'altezza di seguire.
Intendiamoci, di ottime performance soul tra "What's Going On" e "Songs in Key..." ce ne sono state, eccome. Ne cito due per tutte: quelle di Bobby Womack e Bill Whithers.
Ma quel sound sintonizzato sulla lunghezza d'onda nel nuovo contesto metropolitano, quell'innesto di tematiche sociali sulle dolcezze della black, quella consapevolezza di poter essere un punto di riferimento per i neri d'America e non solo un idolo, uniscono in modo più che evidente e rendono speciali gli album dei due grandi artisti dalla sensibilità tanto acuta quanto simile. Un'operazione della stessa portata, se mi è concesso il paragone, l'aveva compiuta Miles Davis in ambito jazz.

Brani come i già citati "Isn't She Lovely", "I Wish" e "Sir Duke", come "As", "Contusion", "Pastime Paradise", "Ordinary Pain", oltre alle ballad "fosforiche" e mai convenzionali come "Village Ghetto Land" (musica da camera+soul), "Summer Soft", "Joy Inside My Tears", ridisegnano completamente i confini e le aspirazioni della pop-black music, raggiungendo livelli che solo in pochi successivamente saranno in grado di avvicinare.
All'epoca Wonder aveva già sfornato capolavori del calibro di "Music On My Mind" e "Innervision", ma la grandiosità del progetto (due LP + 1 EP), la stupefacente vena creativa, nonché l'abilità di tenere insieme tanti "fili" in un equilibrio mirabile e, forse, irripetibile, fanno di "Songs In The Key..." un "arazzo" tanto imponente quanto godibile.

Carico i commenti...  con calma