Alla metà degli anni '70, Belfast era una città in guerra, un territorio pericoloso dove si rischiava di essere uccisi per essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. L'IRA colpiva con furia cieca soldati e civili, mentre i paramilitari lealisti colpivano indiscriminatamente la popolazione cattolica per il suo supporto, vero o presunto, alle attività dell'IRA stessa. In tutto questo, l'esercito britannico non riusciva a distinguere nemmeno tra i guerriglieri ed i semplici cittadini, alienandosi il favore dei cattolici oltreché degli irlandesi tutti. Il conflitto produceva violenza e disperazione e la morte era tutt’altro che una cosa rara per le strade dell’Irlanda del Nord. Questa era la patria degli Stiff Little Fingers, lontana solo qualche chilometro in linea d’aria dalla modaiola Inghilterra, dove si discuteva la posizione corretta delle spillette sulla giacca, per essere o diventare un punk vero.
In tale contesto, quattro ragazzi di Belfast si “mettono il chiodo”, esattamente come i Ramones, e decidono anche loro di entrare in guerra. Ma non lo fanno con i fucili, bensì con le chitarre. E non sparano proiettili ma canzoni che colpiscono duro, anche più di un fucile. Il loro vate si chiama David Ogilvie, fratello del loro futuro manager Gordon Ogilvie. Presenza trascurata e misconosciuta, questo Bernie Taupin del punk scrisse in realtà le liriche a tutti gli anthem più famosi del gruppo; testi a mio parere fantastici e mai banali, che condannavano senza pietà gli invasori inglesi ma non schierarono mai gli Stiff Little Fingers a favore o contro le fazioni irlandesi. Il mix delle liriche di protesta di Ogilvie e delle melodie accattivanti di Jake Burns si dimostrò da subito “letteralmente” esplosivo. Il primo disco degli Stiff Little Fingers infatti è veramente incendiario fin dal titolo. Inflammable Materials abbinava inni stradaioli urlati a squarciagola ad un’approccio punk a dir poco spontaneo e vigoroso. E’ la nascita di uno stile, solo in parte debitore ai Clash ed ai Pistols. Al netto di una certa approssimazione strumentale, Inflammable Materials è un disco sicuramente epocale, più per la forza dei contenuti e l’impatto dirompente dello stile che per le canzoni stesse.
E’ invece la primavera del 1980 quando a fine marzo arriva nei negozi il secondo album degli SLF, intitolato programmaticamente Nobody’s Hero. Dopo centinaia di concerti in ogni angolo del Regno Unito, i ragazzi hanno ormai uno zoccolo duro di fans che li adora e spinge subito il disco verso le prime posizioni della classifica nazionale. Che storia ragazzi, gli Stiff Little Fingers nelle charts tra i Bee Gees e Michael Jackson! Allora anche i giornalisti “alternativi ”inglesi, solitamente impegnati a valutare la carica reazionaria del movimento dei “new romantics” devono scriverne. E lo fanno distrattamente, considerando Nobody’s Hero meno valido del disco d’esordio. E si sbagliano.
Nobody’s Hero è invece un’altro piccolo capolavoro. Nessuna sindrome da “difficile secondo album” innanzitutto, anche se l’impressione iniziale può essere che le canzoni siano un po' più riflessive e intimiste rispetto all’esordio. Ma c'è ancora pathos e passione da vendere. Sicuramente il supporto dell'etichetta major, sbeffeggiata in diretta sul retro cover, si materializza in una produzione più pulita e precisa. La voce di Burns è invece incazzatissima, più ancora che sul primo album. L’emozione della musica rimane però immutata e le “piccole dita rigide” non perdono un’oncia della loro rabbia. Ma questa volta, invece che sputarla ai quattro venti, la razionalizzano. Così facendo riescono a canalizzare l’impeto delle canzoni in una soluzione più ricca di sfumature melodiche e svisate stilistiche che aprono il fronte alla New Wave, forzando gli stessi confini del punk stradaiolo.
La successione dei pezzi della prima facciata è una mitragliata nelle chiappe. “Gotta gettaway”, l’opener, al momento dell’uscita dell’album è già un inno oltreché un singolo. Una delle preferite dei loro concerti, spesso cantata insieme al pubblico nell’incipit memorabile che successivamente diventa ritornello, in studio “Gotta gettaway” diventa ancora più cattiva e travolgente. Ma sarà probabilmente nella splendida versione live su “Hanx!” che troverà la sua definitiva consacrazione. Neanche il tempo di rifiatare ed un vortice di chitarre travolge qualsiasi ostacolo. Le successive “Wait and See” (“dicevano che non eravamo abbastanza bravi per essere una dance band”) e la barricadera “Fly the Flag” (“datemi una nazione che si possa ancora definire grande”) sono due classici assoluti del gruppo. Poi la rabbia si stempera leggermente ma la cifra della canzone rimane altissima: “At the edge”, un singolo molto amato, mantiene inalterata la carica sua emotiva anche nella versione dell’album. Un altro inno insomma. Chiude la splendida prima facciata del disco il pezzo che da il titolo all’album, quella “Nobodys Hero” che ovviamente diventerà classico tra i classici. E non potrebbe essere altrimenti. Chitarre serratissime, voce incattivita dalla raucedine ma linea melodica indovinatissima. Ecco, la grandezza degli Stiff Little Fingers sta proprio in questa capacità di coniugare l’urgenza e l’aggressività del punk con canzoni a forte vocazione melodica. Anni dopo, i Green Day te utto il punketto derivativo a stelle strisce passeranno alla cassa a riscuotere la gabella e diventeranno milionari con questa semplice formuletta.
Per fortuna la seconda facciata non è eccezionale come la prima altrimenti avrei finito tutte le parole per andare avanti e non mi sarebbero bastate 5 stelle per votare il disco. Invece la Side B si apre con la sperimentale Bloody Dub, tentativo di andare oltre il semplice punkyreggae alla “White man in Hammersmith palace” e lanciarsi verso lidi più vicini alla dubwave che gruppi come gli African Head Charge avrebbero portato avanti con ben altra protervia. La cover che cerca di ripetere i fasti di “Johnny was” è questa volta presa in prestito agli Specials di Jerry Dammers. Si tratta di quella “Doesn’t make it allright” che rifiutava con pervicacia qualsiasi ipotesi di razzismo e di separazione tra bianchi e neri. Il miracolo riesce solo in parte e “Doesn’t make it allright” diventa qui un buon pezzo di skapunk, ma perde la magia originale e non la riconquista neanche nel tiratissimo finale. La successive “I don’t like you” (definita dai fans una “fuck song””) e “No change” nulla aggiungono e anzi qualcosa tolgono a quanto fatto finora dai ragazzi. La conclusiva “Tin soldiers” è invece un’altro anthem del repertorio degli Stiff Little Fingers. Parte come una marcetta, quasi in sordina, per diventare l’ennesimo inno punk contro la guerra e il servizio militare (“si arruolò solo per avere un lavoro e dimostrare a tutti di non aver paura”). Sarà per sempre uno dei pezzi più amati dai fan del gruppo, spesso la chiusura dei loro mitici concerti.
Questa era ed è la versione classica del disco e non voglio neanche considerare le ristampe, le bonus tracks e minkiate varie. Il disco bastava a se stesso nei suoi scarsi 35 minuti che ora come allora mi sembravano talmente pieni da non desiderare altro che girare il disco e rimetterlo da capo. Di lì a poco sarebbe poi venuto il live celebrativo “Hanx!” a consacrare la miglior punk band del dopo 77 ( tranquilli, i Clash vennero prima…).
A 35 anni dalla sua uscita, mi sembrava doveroso ricordare che Nobody’s Hero è veramente un signor disco. E’ l’album nel quale la band mette a fuoco compiutamente il proprio stile e, a mio parere, rappresenta un buon salto in aventi rispetto all’esordio. Perché la band fa qualcosa di più che urlare contro i muri, cosa che – siamo onesti – a volte sembrava fare gratuitamente in Inflammable Materials. Resta l’impressione che, con l’inserimento nella seconda facciata di alcuni pezzi tratti dai singoli dell’epoca, ad esempio la granitica “Straw Dogs” o l’ottima “Back to front”, il disco avrebbe potuto essere veramente straordinario. Tuttavia infiammò gli animi come pochi altri e dimostrò che anche quattro sbandatelli di Belfast potevano diventare una rock band suonando la “loro” musica e non quella che volevano le case discografiche. Nobody’s Hero servì a definire meglio un tempo, una rabbia e un movimento che la storia ha reso negli anni una vera leggenda.
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