Il secondo album dei georgiani Stillwater, pubblicato nel 1978, è il loro migliore; meglio suonato e prodotto dell’esordio dell’anno prima, e più vario. La fuorviante copertina con un jogger ridotto in mutande che sgarretta per Manhattan cela per un attimo il genere musicale contenuto nel lavoro: buon vecchio rock sudista, per l’occasione parecchio screziato di rhythm & blues poppereccio.
E’ il caso dell’ottima “Women (Beautiful Women)”: pennellate di piano elettrico a staccare accordi ricercati e la voce del batterista Sebie Lacey, così negroide e alta, allontanano decisamente la banda dalla sua area southern, anche se ci pensa poi un assolo col talk box a ricordare che si è al cospetto di un combo iper chitarristico. Stessa lontananza dalla “base” hard per “Keeping Myself Alive” guarnita di fiati, per la sincopata “Fair Warning” piena di clavinet e per l’addirittura funkettara “California Cool”… Però non sempre efficaci, in realtà effettive pop songs, beninteso con un pò di chitarra solista tosta nel mezzo, a ricordare da che parte degli USA siamo e a togliere il gruppo dalla genericità.
Ci pensa comunque “Sometimes Sunshine” a rimettere le cose a livello: grande ballata dalla melodia agganciante e dalla vocalità struggente. Siamo dalle parti, con un pizzico di fantasia, di… Billy Joel, non badando però all’intermezzo strumentale affidato alla solita coppia di chitarrone in grintosa armonia. Ancor più odore dell’ottimo BJ (che ricordiamo è un rocchettaro di gioventù, convertitosi al pop adulto in un secondo tempo ma mai del tutto) emana la dolce “Alone on a Saturday Night”, breve intima e calda, senza una chitarra elettrica all’orizzonte per una volta.
Le battaglie di Gibson Led Paul dentro i Peavey a manetta, doverose per un gruppo sudista che si rispetti e con ben tre addetti fra le sue file, in quest’occasione sono riservate soprattutto al brano eponimo che apre l’album, dilatato all’uopo fino a oltre i sette minuti, e a quello conclusivo “Ain’t We A Pair” che inizia si con un duetto di voci soul, maschile e femminile, ma poi si scatena nel ruooook strumentale più incontenibile.
Resta evidente in questo secondo disco il tentativo della formazione georgiana di rendersi appetibile e vendibile, smussando qualche durezza e svicolando verso la grande musica d’intrattenimento americana, profondamente legata al rhythm & blues: tutto vano, i riscontri saranno tangibili, ma in sostanza tiepidi e non vi sarà più trippa per gatti per questi bravi, abbandonati dalla casa discografica.
Una riunione e un album di discreta qualità a fine millennio, colle panze cresciute e i capelli diradati e tagliati come natura comanda, non sortirà novità e gli Stillwater rimarranno confinati all’area dei club, a far divertire cento o duecento persone alla volta. Onore a loro… non c’è posto per tutti nel carro dei vincitori; ma in giro circolano ancora i loro dischi (specialmente questo) e vi invito a non lasciarveli scappare.
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