L'estasi del patinato.

Con ancora nelle orecchie il supercofanettone live della reunion dei Police (mai operazione natalizia fu così baciata dal Divino), ho deciso di ripercorrere con l'udito più vecchio le tappe discografiche di uno dei miei antichi eroi. Sting.

Averlo visto a Torino coi Police più di vent'anni dopo che provai in vano, coi miei esaltati amici, di imitare la loro musica, è stata un'esperienza religiosa. Ritrovarmeli nel cofanettone natalizio e potermeli gustare sulla comodità del divano, è stata libidine adulta, magari smargiassamente post-rock e ciabattara, ma, tant'è, libidine è e resta.

Allora mi sono imposto di riascoltare tutto e di capire. Partendo, ovviamente, dalla fine. Da questo disco patinatissimo ed esteriormente perfetto, dove ogni suono è al suo posto, tutto è registrato e suonato e interpretato al meglio. Ma, tant'è, me lo ricordavo come un disco che non funzionava, che non "girava".

E oggi, dopo la genialità minimalista dei Police, non posso che riconfermare la mia impressione davanti a un'opera barocca, sovrabbondante e supremamente inutile come questa. E, s'intenda, lo dico col cuore trafitto e sanguinante.

Quasi mai mi so trovato a marchiare d'inutilità un'opera Stinghiana/Poliziesca. Sempre c'è stato qualcosa da dire e sempre s'è cercato di dirlo al meglio. Certo, nel penultimo "Brad New Day" già si sentivano i rumori del cedimento, si ascoltavano le infauste note del già (troppo) sentito.

Qui si cede a un vizio per me imperdonabile: il barocchismo. Ogni brano avrà una cinquantina di tracce sovraincise, almeno, con cori su cori, violini su violini, percussioni su percussioni. In una pseudo-ballata fa anche capolino la sempre più insopportabile (e incomprensibile)................... Tutti impazziscono per lei (gli U2, ad esempio, tanto da permetterle di sbraitare e gorgheggiare sopra un classico come "One", perdipiù impunemente), ma, tant'è, anche se i blasonati la amano io, come Totò, "non m'intimido" e le porgo tutti i miei ortaggi (la prima volta che mi capita a tiro).

Le tracce si susseguono nella perenne speranza che quella successiva lasci il segno, cosa, che, regolarmente (salvo un'eccezione di cui dirò), non avviene.

E il disco finisce ben simboleggiato dalla copertina fighetta e patinatissima.

Certo, non ci si può aspettare che Sting non sia secchione, come non si può pretendere che non sia bello. La sorte ed il merito gli hanno riservato bellezza e precisione, serietà e talento. Insomma: un uomo in gamba e fortunato. Che però, in alcuni splendidi casi (tutta l'opera dei Police, poi, citando i primi che mi vengono in mente, "Soul Cages" ed il live "Bring On The Night") ha saputo tirare fuori l'anima e farne un uso ben calibrato, pur in un ambito di evidente -ma piacevoli, lì...- secchionaggine.

Tutto da buttare, dunque? A mio avviso no, assolutamente. Io trovo ci sia un piccolo capolavoro, nascosto, mai fatto singolo ed ultra(auto)citazionistico: "Never Coming Home". Qui l'elettronica e le multivoci sono belle e calibrate, gli strumenti tutti bene al loro posto, ed il lungo assolo finale di piano è a dir poco splendido, noché costruito sulla falsariga di un bellissimo solo del compianto Kenny Kirkland su "Bring On The Night". Un omaggio originale e riuscito. Davvero notevole.

Ma, purtroppo, una goccia di Caol Ila in un mare piattissimo d'acqua (pesante).

Dicono che prima della reunion coi Police fosse pronto un nuovo album in studio. Se l'ha cestinato o sospeso perché era la seconda parte di questo, ha fatto bene. Se non è più in grado di accorgersi del valore della propria opera ed ha cestinato o sospeso qualcosa di buono, potrebbe essere un peccato. Vedremo.

Per il futuro, data -pare- l'impossibilità di una nuova opera polizziottesca, consiglierei di chiudersi al Palagio, di bersi qualche bottiglia -ne produce di buone...- e di fare un bel disco in quattro: batteria, piano, chitarra e Lui, voce e basso. Sicuramente verrebbe fuori bene.

Portarsi, in sostanza, non più d'un otto piste. È un ordine.

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