Il Gordon che duetta con Shaggy e tenta di esprimersi all’Ariston con un italiano da vero gentleman affogato nell’infinità della sua inadeguatezza non sono ciò di cui voglio rendere testimonianza. Per me Ten Summoner’s Tales è LA voce di Sting e la sua definitiva prova di maturità. D’altronde erano anni travagliati per il nostro eroe, come per il sottoscritto. Ero in procinto di superare il mio primo anno di età, voglio vedere se riuscite a sostenere il contrario. Insomma la sua voce più calda che mai, tinte jazz elegantissime e per una volta non pretenziose, volte ad un pop adatto alla sana crescita di un poppante qual ero. Tutto ciò in qualche modo lo ricordo. Mi ricordo le gite fuori porta, scorribande sul porto di Oneglia durante splendide giornate invernali. C’è qualcosa che ricordo e si trova nella potenza di Vinnie Colaiuta e nella sua maestria di condurre i tempi misti, nel contributo di un Eric Clapton altrettanto distrutto dalla vita, nella presenza irrinunciabile e mai ingombrante di David Sanborn. Un disco per veri palati fini, per me il migliore.
“If I Ever Lose My Faith in You” è l’inizio perfetto. Un brano semplice e squisito eppure così blasonato e osannato dalla critica. “Love is Stronger Than Justice”, un prosieguo da me mai troppo apprezzato per quanto mostri un rock/soul di indubbio valore, una sorta di tributo al miglior Stevie Winwood. Probabilmente possiede quel groove in ritmo inafferrabile che da bambino il mio cervello crucco non sapeva sopportare. Un brano destinato a migliorare come il vino.
“Fields of Gold”, la ballad di fine secolo. Quanti pianti negli anni a venire. Non ha bisogno di presentazioni neanche per i pochi stolti neofiti di Gordon che mi stanno leggendo, per cui non vado oltre. “Heavy Cloud No Rain” ha il calore della sua voce incorporato; apparentemente un brano di appoggio per gli altri, eppure è il più suo localmente parlando. Ed è un magnifico esempio di compostezza e originalità nella strumentazione. Passiamo per la carica blues melanconica e potente di “She’s Too Good for Me”, per l’ennesimo stratagemma (comunque splendido e musicalmente impeccabile) chiamato “Seven Days”, del tipo “quando il mio taccuino non attira a sé nuove liriche, tanto vale puntare sui giorni della settimana, che qualcosa esce sempre fuori”. Giungiamo quindi al nuovo funky/jazz in tempi misti che dà valore al batterista turnista più prolifico di sempre. “Saint Augustine in Hell” si interrompe con un macabro monologo di un improvvisato Caronte. “It’s Probably Me”, I have to say it. Si tratta del brano più immensamente squisito degli anni 90 così intimisticamente poppettoni, insieme ai due successivi. “Everybody Laughed But You” è infatti un ulteriore esempio di perfezione strumentale. Ed io mi chiedo, interrompendo questo strano elenco, cosa rendeva così semplice, in quegli anni, proporre una melodia efficace che allo stesso tempo richiamasse ad atmosfere di secoli addietro? Come faceva quella scimmia urlatrice dei Police (detto con amore immenso) ad attraversare i secoli con tale immediatezza e semplicità. I musicologi si stanno ancora arrovellando su questo dibattito. Per fortuna possono continuare a dibattere tranquillamente sullo stesso argomento ancora a lungo. Finché il gusto musicale sarà un concetto superato. Il gusto musicale. Il risveglio di questo senso, insieme a tutti gli altri, avviene ora alla massima potenza. Infatti vado un attimo nel limbo di tutti coloro che non vivono in questo pianeta perché sono indaffarati ad ascoltare “Shape Of My Heart”. La scrittura rinascimentale/tardo romantica, probabilmente inaccostabile, che era stata annunciata negli esempi precedenti, ottiene qua la sua espressione più pura. Un brano storico, stranamente sottovalutato nella costellazione di singoli di quest’album, eppure così vivido in noi tutti, in ogni musicista illustre o meno che non sa resistere a riproporlo o rivisitarlo, in ogni focolare a cui aggiungi una chitarra e quell’intro. Lo Sting di noi tutti, quello che non si discute.
“Something The Boy Said” e “Nothing ‘bout me” sono una chiusura perfetta, quasi a smorzare i toni e accompagnarti alla dolce fine di un capitolo di vita. In particolare l’ultimo mi ha recentemente dato di nuovo un sorriso che non si spegne fino alla fine della giornata. Inizialmente sembra una ballata pop banalissima seppur tanto easy da listen, tipo Celentano di pochi anni fa. Appena si annuncia il ritornello il piano elettrico sfonda le pareti modulando sui toni jazzistici che hanno accompagnato il percorso finora compiuto. Un altro esempio di scrittura musicale magistrale. “You still know nothing ‘bout me”, infatti, pensavo mi stessi prendendo in giro. Invece c’è sempre da imparare sui propri idoli. Spazio a riflessioni su chi possa lui essere oggi. Su quanto il mercato ci chieda. Su quanto il mercato già gli chiedesse allora. Di sicuro so che, per me, il vero Sting è tutto in queste dodici splendide tracce.
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