Prodotto decisamente su misura per tutti gli onnivori di British Blues del periodo "classico" del genere. Perché di genere vero e proprio, si, si può e si deve parlare. Un genere con i suoi marchi distintivi, i suoi segni di riconoscimento, quelli cui già accennai recensendo i Chicken Shack. Un genere che ha prodotto monumenti di Blues revival senza se e senza ma, alla faccia di quanto leggevo - di recente - nel pur significativo "Blues" di Edoardo "Catfish" Fassio. Lungi da me il contestare la preparazione di un critico tanto versato in tale ambito, quel libro (e lo dico a chi non lo avesse ancora letto) presenta diversi pregi ma anche molti - e gravi - difetti; e i difetti, manco a dirlo, stanno quasi tutti in quel capitolo (e già ci sarebbe da discutere: un capitoletto solo...?) in cui Fassio si occupa di Blues bianco in generale, peraltro incorrendo nel pacchiano errore di accomunare revival americano e revival inglese sotto una stessa etichetta. E dopo aver (giustamente) ribadito con forza l'autorità del Blues nero in tutte le sue espressioni, si lascia andare ad affermazioni poco simpatiche su Mayall e Clapton, definendo quest'ultimo "un tecnicista di seconda mano, cauto imitatore di altri". Il tutto in fede alla solita retorica pro-Blues nero che vorrebbe la scena inglese (ma anche quella americana anni '60 e '70) una scena totalmente derivativa e priva della passione dei Padri; trascurando invece le infinite contaminazioni Blues-psichedelia, trascurando il portato devastante dei Cream e degli epigoni "power-trio", trascurando il fatto che lo stesso Hard Rock (Page docet) fu in principio Hard Blues. 

Insomma, un genere spesso trascurato, il B.B., quando fu proprio nell'Inghilterra di quegli anni che si posero le basi per quanto il Blues sarebbe stato, nei tempi a venire. Trascurato come molte formazioni tipo gli Stone The Crows, che in fatto di originalità (appunto) sanno ancora dire, e dirlo con forza, qualcosa. Ebbene si, accanto alla ben più nota "Swinging London" esistette anche una "Swinging Glasgow", con gruppi scozzesi di non secondario spessore e artisti immensi. Due esempi: Maggie Bell ("Janis Joplin di Gran Bretagna") e Leslie Harvey, eccelso chitarrista fratello di un più noto Alex; in altre parole, i due personaggi distintivi di questa formazione esordiente, su disco, nel 1970.

Perché recensire "Ode To John Law", secondo disco, quando il primo - omonimo - è forse anche più conosciuto (cover - magnifica di "Fool On The Hill" e l'intera, epica, facciata di "I Saw America")...? Perché è la seconda prova, quella decisiva: facile esordire col botto, non altrettanto dare a tanto esordio un degno seguito. Esempi illustri insegnano: lo stesso Hendrix non fu capace, in "Axis", di replicare - "in toto" - la perfezione assoluta dell'opera prima. Gli Stone (che certo non avevano alle spalle un "Are You Experienced?", ovvio ma opportuno sottolinearlo) non tradiscono e infilano, pochi mesi dopo, un altro capolavoro. Dedicato al celebre economista (connazionale del gruppo) vissuto fra XVII e XVIII secolo, ideatore dell'omonimo "sistema" creditizio poi notoriamente fallito. E' lui il protagonista della "title-track" (una quantomai sinistra, satanica "title-track") capace di rievocare, in avvio, l'organo di Garth Hudson della Band in "Chest Fever": organi così, è triste dirlo, non s'odono più...

...è' l'organo di John McGinnis, mentre il basso lo suona James Dewar (poi con Robin Trower) e alla batteria siede Colin Allen, che certo ricorderete con Zoot Money e i Bluesbreakers di "Laurel Canyon". Mai un momento di debolezza, e sono questi i dischi che piacciono a me; c'è una tensione costante, fortissima, e le vibrazioni che si percepiscono sono quelle di un Blues venato di Soul e Gospel, ma anche acre a tratti, potente, vigoroso, tenacemente "zeppeliniano". C'è un motivo: il manager loro era lo stesso degli Zeppelin, quel Peter Grant già con gli Yardbirds e più avanti coi Bad Company. La produzione conta eccome, certo, ma che dire dei pezzi in scaletta...? "Sad Mary" pare scritta da Page in carne ed ossa, ma la vocalità della Bell la rende unica; come la rende unica la chitarra di Leslie nella seconda parte, con quel wah-wah mai invadente e quei sussurri tanto "greeniani", graffianti, riverberati da metter paura (gli stessi che si ascoltano in "Friend" e in "Love", libere espressioni di splendore elettro-psichedelico). E poi una profondissima ballata gospel alla "Your Time Is Gonna Come" ("Things Are Getting Better"), e un gioiellino minore come "Mad Dogs & Englishmen"; il titolo mi fa pensare a una vecchia conoscenza, la musica lo conferma: la ritmica R'n'B e l'assolo di piano sembrano quelli di "Feelin' Alright", ma al piano non c'è Chris Stainton, e neanche Leon Russell... E poi... e poi, si chiude in grande stile: col bluesone minore "Danger Zone" (di Percy Mayfield), che conferma che la Maggie è una vocalist spaventosa e che mette in vetrina passaggi armonici superlativi.

Un gruppo sempre lontano dal successo, colpito pure dalla maledizione: Leslie Harvey morirà fulminato da un corto circuito del microfono, due anni dopo. Perché 5 stelle? Primo: perché il disco è fra i miei preferiti del genere. Secondo: perché trasuda personalità a non finire. Buon ascolto.

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