Premessa 

Si dice sempre di evitare per un album qualsivoglia forma di descrizione secondo la scaletta delle canzoni - ossia quello che con una fastidiosa terminologia anglosassone è detto track-by-track. Questo perché la lettura si appesantisce (e chi scrive è una sorta di campione del mondo in questa disciplina), perché spesso risulta più irritante che utile, fors'anche perché necessita di un bagaglio culturale musicale significativamente superiore allo zero (che peraltro credo di non avere).
Bene, a fronte di tutto ciò, farò come quasi sempre ho voluto fare. Per dirla come Rhett Butler nel momento in cui lascia Rossella O'Hara in lacrime sulla scalinata di panno rosso ricoperta, francamente me ne infischio.

Vi avverto: sarà un macello.

 En bien

Siamo nel millenovecentosettantasei; mia madre aveva tre lustri, mio padre studiava allegramente per la patente ed io avevo meno nove anni. Gli Styx, da un anno nella formazione classica con l'ingresso del biondo Tommy Shaw, se ne escono con il loro sesto album. "Crystal Ball" apre il periodo aureo (a scanso di equivoci simbolico-arcani non c'entra nessun 1,6180...) della band di Chicago, il quale, attraverso alcuni ottimi lavori (su tutti "The Grand Illusion" e "Pieces Of Eight"), culminerà nel bellissimo "Paradise Theater" del 1980. Per ulteriori informazioni contattare la stella cadente, a cui questa recensione è peraltro dedicata.

L'ellepì è nero e contiene un lungo solco che spiraleggia verso il centro su entrambi i lati (magari qualche giovincello non lo sa). I brani sono sette, come sette sono i nani (quelli di Biancaneve, neh?), gli anni in Tibet, i brufoli degni di nota sul mio viso oggi, i comuni dell'altopiano di Asiago, le spose e i fratelli, i colli di Roma (città ove si vendono un sacco di cravatte), le coppecampioni degli odiosi cugini, Scientology e la Massoneria.

Apre "Put Me On": codesto brano è una sofferta e tirata cavalcata tra i campi sintetizzati e le chitarre sferzanti, verso un orizzonte di apertura melodica, ove la bella voce di Dennis De Young trova rifugio in un coro di leggerezza, prima che la pioggia della ritmica lo travolga nel suo incedere in un acutissimo gemito. Il lamento è quello di una dolce "Mademoiselle": ella, esortata da un coro molto efficace, si dipana tra suadenti apprezzamenti di chitarra ed il cuore pulsante del basso: è un bel brano, pomposo e nitido, nel pieno stile di questa grande band d'oltreoceano.
La vena creativa fornita dal gentil sesso risulta del resto evidente anche dal brano successivo, "Jennifer"; introdotta da un memorabile fraseggio monosillabico, la canzone risulta un pregevole A.O.R. (se proprio devo fare una puntata - cieca - nel calderone dei generi). Le chitarre di Tommy Shaw e di James Young sono fiammate di luce, la batteria è un gioioso metronomo.

Se finora si è parlato sì di buoni brani ma non di autentiche perle, a far saltare il banco irrompe "Crystal Ball". La title track è un brano che, in quelli che sono il filone musicale - il cosiddetto pomp rock - ed il peculiare timbro della band di Chicago, oserei definire perfetto: l'intro dolce di pianoforte, il refrain corale impeccabile, l'assolo di tastiera ad anticipare le chitarre che prima supportano il cantato e poi si liberano in voli pindarici di spensieratezza. In misura magari appena minore, il brano presenta le caratteristiche di quello che forse è il vero emblema della Stige, ovverosia quella "Come Sail Away" che gela il sangue nelle vene da quanto è bella.
"Shooz" è invece un secco hard rock che pare avere il compito di "spezzare" la tensione emotiva del brano precedente (la stessa "Come Sail Away", a ben vedere ed a prescindere dal cambio di lato del vinile, nel successivo "The Grand Illusion" sarà del resto seguita dalla tiratissima "Miss America"). Il canto di Young si fa roco, le chitarre macinano riff, i simpatici fratelli Chuck e John Panozzo dimostrano la loro abilità nelle stanze della ritmica, oltre a creare un buffo e curioso contrappunto agli spilungoni biondi delle chitarre

"This Old Man" è un altro bel pezzo di questo ellepì: all'evocativo canto della chitarra elettrica subentra una cristallina acustica, atta ad avvolgere di calore la sentita storia narrata con passione dal bravo Alberto Angel... ehm, Dennis De Young. Il corale monosillabico - costante di questo lavoro - ed il rullar da torneo medievale dello strumentalmente sbilenco John Panozzo conducono ad un intermezzo di più ampio respiro, prima che l'assolo di chitarra divampi ad incorniciare quello che è il vessillo di questi musicisti - la polifonia vocale, di rara pulizia.

Chiude "Clair De Lune/Ballerina", omaggio-neanche-troppo al bravo compositore francese Claude Debussy ed altro vertice qualitativo dell'ellepì; sull'immediata soavità d'organo e pianoforte irrompono dapprima basso e batteria ed infine le chitarre per un crescendo veramente notevole. L'intensità si mantiene a livelli insostenibili fino a che tutto sfuma - chiaramente a corale monosillabico, questa volta sui temi del classico "la" - nel silenzio del chiaro di luna. Semplicemente, un grande brano.

Gli Styx, band molto dotata e non troppo conosciuta in Italia, quantomeno dalle generazioni poco stagionate, cominciano in definitiva a far intendere di essere non comprimari, bensì tra i protagonisti della scena nordamericana degli anni settanta ed ottanta, al fianco di altri validi gruppi in varie sfumature di genere: tra i più famosi si ricordano i Rush, i Kansas, i Pavlov's Dog, i Journey, l'A-team, i chirurghi di M*A*S*H, i Los Angeles Layers e la nazionale canadese di curling alle Olimpiadi invernali di Calgary.


N'est-ce-pas?

Chiudo con un inquietante interrogativo: si nota il fatto che, avendo finito gli esami del primo semestre ed essendo per qualche settimana in vacanza, ho un sacco di tempo per cazzeggiare?

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