Nulla dura per sempre. Nemmeno se si è sicuri del contrario.
Il 7 luglio 1958, dopo sei mesi di progettazione, terminò la demolizione del “Paradise Theater” di Chicago. Quando venne aperto nell’anno del Signore 1928 l’idea era che sarebbe durato per sempre, magnifico nella sua scialacquata imponenza; fasto emblematico e campagne pubblicitarie inaudite non sembrano del resto dare addito a dubbio alcuno. Da subito tuttavia le cose non funzionarono: il cinema non ingranava come doveva e l’avvento del sonoro nei film ne palesò inoltre un’imprevista inadeguatezza acustica. Schiacciato infine dall’avvento di un goffo e sgraziato intrattenitore domestico, nel 1956 venne infine chiuso, mestamente. La Compagnia acconsentì ad una assai laboriosa demolizione: fu questo forse lo spettacolo meglio riuscito al triste Paradise.
La storia di questo “cinema dei sogni” viene ripescata 22 anni dopo da una band che, lenta ad ingranare, stava finalmente confermandosi negli Stati Uniti in un filone musicale che divampava e variava dall’esperienza di una costellazione di gruppi più o meno importanti, dai Boston ai bravissimi Kansas. Styx era il loro nome; pomp rock il loro genere, direbbe qualcuno. Può essere: la loro musica, dalla solida matrice pop rock, poteva certo ritenersi cesellata da velati spruzzi progressivi, se non altro per la magniloquente patina d’ottone che l’accompagnava nello svolgersi della vicenda.
“Paradise Theatre” (con l’orrida inversione biletterale tanto cara in quel d'oltreoceano) è un concept album: in esso riecheggiano i trent’anni della storia ingloriosa del cinema del West Side di Chicago, dalla pomposità dell’esordio alla tristezza che ne avvolgerà le fredde materie. “A.D. 1928”, dunque: mentre le odorose signore con pellicce inguardabili s’affollano nel luminoso vestibolo denso di fumo, una voce glorifica ciò che sarà, cio che dovrà sicuramente essere. La melodia è fantastica, senza mezzi termini; il pianoforte brilla di luce propria e questo che null’altro è che un’intro si rivelerà il tema cardine dello spettacolo, ricorrendo più volte a sancire la polvere del tempo. “We need your spirits high to turn on this theater lights and brighten the darkest skies, here at the Paradise.”.
“Rockin’ The Paradise” irrompe allora come un tuono impetuoso: la melodia tirata eppur soave si leva in un palcoscenico di avorio bianco e nero, mentre la batteria dietro al sipario pulsa fremente. Permettemi, bellissima; bellissima e certo fuorviante. La seguente “Too Much Time On My Hands” stravolge infatti la scaletta con la sua atmosfera ai limiti dello space rock dei Rockets; brano tuttavia che acquista spessore con ascolti ripetuti. Il primo atto prosegue con “Nothing Ever Goes As Planned”: il registro torna in mano alla chitarre di Tommy Shaw e di James Young per un’orecchiabile ballata che nel ritornello, soffuso di sassofono, sembra ricordare i contemporanei lavori del progetto di Alan Parsons. Il rimando al Paradise Theater è evidente: “You’ve done your duty and paid a fortune in dues: still got those Mother Nature’s Blues”. In evidenza, nonostante lo spessore della canzone non sia eccelso, il solido basso (ed il nome) di Chuck Panozzo. Il primo atto chiude comunque con un grande brano, introdotto dal tema principale (si parla di una suite, in fondo – non vi è sovente cesura evidente fra i singoli brani). “The Best Of Times” si erge a manifesto di un punto fermo del genere, l’immancabile refrain corale, qui davvero intenso ed evocativo.
C’è ancora qualche attempato signore che, rinfrescatosi nel lussuoso bagno, ancora non ha ripreso posto sul madido velluto del polveroso sedile quando le luci si riaccendono; tra le più disparate voci, ingannevoli trombe annunciano la ripresa dell'ultimo spettacolo. “Lonely People”, brano relativamente duro, pone i riflettori sullo stato d’animo della Compagnia mentre una chitarra pennella una tela tessuta lentamente ma con punto fermo dal basso e dalla batteria dell’altro Panozzo, John. "Oh my God, well we both are empty, Paradise and me: do you believe I’m still chasing rainbows when everywhere I see lonely people?"
“She Cares” è un brano scorrevole, cori e pianoforte a pioggerella autunnale ad allentare la tensione prima della bella e nervosa “Snowblind”, trascinata dalle stridule tastiere di Dennis De Young e da chitarre che sanno bene quando parlare. Purtroppo già si vede il sipario calare; la gente non tornerà al Paradise, altri interessi ormai rapiscono la società: we all know it’s the american way. “Half-Penny, Two-Penny”, ashes to dust. Musicalmente, un buon rockettino appena velato di prog i cui cori sorretti da grida patriottiche ("Back home across the sea where I know that I will be free.") si fondono in una coda musicale resa efficace dal sassofono (strumento triste per eccellenza). Eccola, un’ultima volta: quella melodia risuona ancora nell’ “A.D. 1958”, prima del vuoto, prima delle poche note sconsolate di una “State Street Sadie”.
And so, my friends, we’ll say goodnight for time has claimed its prize; but tonight can always last as long as we keep alive the memories of Paradise.
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