Nella seconda metà degli anni '70 gli Styx, dopo uno stentato avvio di carriera con lavori sempre poco convincenti, si ritagliano la loro fetta di gloria confezionando una manciata di album qualitativamente validi. Questo è uno di quelli; e, a detta di alcuni, è forse il migliore, non fosse altro per il riscontro portato delle vendite.
Chiariamo subito che non è uno di quegli album che fa gridare al miracolo: non è rivoluzionario, non è epocale e, soprattutto, non è un capolavoro; è semplicemente un ottimo pomp rock che imbocca la strada già tracciata da altri gruppi di quel periodo (Kansas su tutti). Soprattutto per gli amanti del genere, lo ritengo un disco per cui vale mettere mano al portafoglio. Taglio corto evitando di tirare in ballo il solito discorso di come questo sia stato un gruppo sottovalutato e balle varie: la verità è che in Italia non è mai esistita una vera e sana cultura rock; per cui, loro come altri, non sono e non saranno mai apprezzati. Tutto qui.
Venendo al sodo, l'opera in questione è ispirata dalle tematiche dell'ambiguità, dei falsi miti: delle illusioni, per l'appunto. La title track d'apertura è un ricco antipasto per quello che ci verrà servito in seguito: maestosa nell'incedere quasi militaresco, è la giusta introduzione per passare in rassegna canzoni mai noiose e scontate, legate tra loro forse per assonanza, ma mai ripetitive; calibrate quanto basta, senza fronzoli e senza inutili individualismi, sembrano a volte confezionate quasi su misura per due voci, simili come timbro, che interpretano sempre al meglio le cangianti atmosfere (Dennis DeYoung, tastiere e Tommy Shaw, chitarre). Se le successive "Fooling Yourself" e "Superstars" sono melodie dipanate su un tappeto sonoro di chitarra e tastiera dove il coro raggiunge la giusta efficacia nel contesto, evocando quasi le grandi opere rock/musical nate in quegli anni, "Come Sail Away" diventa il pezzo simbolo della band, il cavallo di battaglia da live show. Dopo il fraseggio iniziale voce e pianoforte, la velocità aumenta ed entra il resto del gruppo fino al raggiungimento del giusto livello con il solito ritornello che rimane impresso nella mente e che, volente o no, ti ritrovi a canticchiare quando meno te l'aspetti.
Alla voce beffarda e graffiante dell'altro chitarrista, James Young, è affidata "Miss America", un pezzo di vero hard rock dove, ancora una volta, chitarra e tastiera si intrecciano, si rincorrono ma non si ostacolano. Sono proprio gli arrangiamenti di questo disco a fare a differenza e permettere un salto qualitativo. "Man in the Wilderness" è una power balad dal gusto agrodolce, pervasa da un' interpretazione corale malinconica e crepuscolare; così come "Castle Walls", il pezzo che ritengo migliore, dove la parte strumentale prevale su quella vocale, giustamente breve e relegata alla parte iniziale e finale di un'esecuzione dove i cambi di ritmo, comunque mai stravolgenti, danno quel tocco in più, a mio parere, rispetto alle altre tracce. Il ritmo si è abbassato. Ma non c'è tempo per i fazzoletti: la conclusione (The Grand Finale, giustamente) è la naturale prosecuzione dell'iniziale The Grand Illusion, per porre la parola fine al "racconto" riportandoci, a colpi di grancassa, a dove tutto era cominciato.
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