“I Suede devono essere sgradevoli”
Il segreto questo nuovo “The Blue Hour” è tutta dentro questa frase del frontman Brett Anderson, che ha ovviamente una chiave di lettura ben diversa da quanto si possa intuire ad una prima lettura superficiale. E’ ormai evidente che l’obiettivo di questa reunion (arrivata alla terza prova in studio, ottava complessiva) non sia quello di vivacchiare o replicare stancamente stilemi musicali già esplorati, bensì di continuare a spingere i confini di una band che a livello qualitativo è tornata finalmente a recitare un ruolo da assoluta protagonista, nonostante sia stata data per morta per ben due volte (dopo l’abbandono di Bernard Butler e dopo lo scioglimento del 2003).
“The Blue Hour” è un disco splendido, e sicuramente il migliore dei Suede dal capolavoro indiscusso “Dog Man Star”; riesce a farsi preferire anche al bellissimo “Night Thoughts” di due anni fa, risultando persino più completo e meno monocorde, senza perdere un’oncia di compattezza.
Per evidenziare quella sensazione di “sgradevolezza” suggerita dallo stesso Anderson , i cinque londinesi scelgono una veste più impegnativa per molti dei brani dell’album: c’è l’Orchestra Filarmonica di Praga ad impreziosire molti dei brani più ostici, a partire dall’opener “As One” (tra canti gregoriani ed improvvise intrusioni della splendida chitarra di un Richard Oakes in forma smagliante, oltre ad un Anderson in forma vocale praticamente perfetta), per passare al lead single “The Invisibles” (sorta di nuova “Still Life” per gli anni 2010).
Dicevamo di Oakes, che suona ispirato come non mai e contribuisce con alcuni tra i migliori riff della sua carriera, rendendo “Wastelands” un futuro classico della band e sbizzarrendosi in una “Cold Hands” che va persino a recuperare i trionfi britpop di “Coming Up”; per non parlare del bridge della superlativa “Beyond The Outskirts”, graffiante fin quasi a toccare l’incisività dei primissimi Muse.
Altrove ci sono concessioni all’epicità più immediata che ha contraddistinto i Suede nei loro episodi migliori, esaustivo in tal senso il singolone “Life Is Golden” (forse la cosa più stadium rock che i Suede abbiano mai creato, in particolar modo nel refrain urlato al cielo) e il sentito tributo a Bowie di “All The Wild Places”. Il capolavoro del disco però arriva con la conclusiva “Flytipping”, quasi sette minuti di digressioni strumentali e repentini cambi di registro che suonano come la chiusura di un cerchio (quest’album è considerato dalla band come l’ultimo della trilogia post-reunion).
I Suede tornano quindi definitivamente ai massimi livelli, e lo fanno con un disco bellissimo e fondamentalmente impeccabile (indolore anche il cambio alla produzione, passata dal sodale Ed Buller all’esperto Alan Moulder, coadiuvato dal tastierista Neil Codling).
Difficile pensare di far meglio di così.
Brano migliore: Flytipping
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