"Mi sto stancando della mia voce. Mi sto stancando del banjo". Proprio da questa dichiarazione del maggio 2006 dovrebbe partire l'analisi di un'opera come The Age of Adz. Da appena un anno Sufjan aveva dato alla luce uno dei migliori album della scorsa decade; una vetta inarrivabile che vale un'intera carriera. Con Illinois (2005), infatti, la fama di questo artista di Detroit aveva raggiunto un pubblico sconfinato: brani come "Casimir Pulaski Day" (uno dei pezzi più belli e struggenti mai composti) avevano fatto il giro del mondo dando una visibilità enorme al giovane cantautore. Quella voce, che regala ad ogni ascolto un profondo senso di ingenuità, aveva saputo narrare di assassini, di amici perduti per sempre, di fallimenti, di leggende e di miti americani. Il tutto con un candore quasi alieno, a tratti straniante. Eppure, all'apice della sua carriera, Sufjan avverte un senso di straniamento che lo porta a ripensare molti dei suoi progetti (tra cui l'idea di comporre un album per ogni stato americano). Il senso di insoddisfazione verso la sua musica e il suo modo di comporre faranno da accompagnamento a ripetuti dolori cronici e, a quanto afferma in un'intervista del 2010, ad una strana infezione virale che ne ha debilitato il sistema nervoso. In questo clima Sufjan partorisce il materiale che confluirà in The Age of Adz, album che porterà una svolta colossale nella carriera dell'artista. Questo lavoro venne anticipato, pochi mesi prima, dall'ep All Delighted People dove i canoni e lo stile compositivo del cantautore non sembravano essere stati intaccati di molto.
Non ci si aspettava, quindi, ciò che sarebbe successo di lì a poco con l'arrivo del nuovo disco. All'inizio di ottobre 2010 The Age of Adz è disponibile sul mercato. Già la copertina è indice di un cambiamento netto con il passato: tutto l'artwork del disco riprende i lavori di Royal Robertson (che, in maniera affine a Sufjan Stevens, aveva sempre ostentato la sua forte spiritualità). Per sua stessa ammissione Stevens rileverà una forte correlazione tra la sua vita e quella di questo artista della Louisiana; a tal punto che molti dei testi del nuovo album nulla sarebbero senza la sua ispirazione. Parlando propriamente di queste 11 composizioni non si può fare a meno di evidenziare il ruolo giocato dall'iniziale "Futile Devices". Musicalmente parlando non ci sembrano essere modifiche madornali: tutto sembra rientrare nella logica degli album precedenti, sebbene si avverta la novità nell'uso degli arrangiamenti e nel lavoro di equalizzazione (soprattutto per quanto riguarda la voce). Il suond più ovattato e un accentuato effetto eco dato alla voce si staccano un po' dal tono dei lavori precedenti. Nulla lascia presagire, però, quanto stia per accadere con l'arrivo della successiva "Too much". Una cascata di rumori, estranei a tutto ciò che ci si aspetterebbe da questo cantautore, introduce una sezione ritmica completamente affidata ad una drum machine. La sensazione che si ha, se si è abituati a quanto era stato fatto in Michigan e Illinois, è di totale straniamento. A onor del vero la traccia convince poco nella prima parte, si sente che l'accostamento tra i ritmi compositivi del passato e l'urgenza di sperimentazione creino un meccanismo farraginoso.
Eppure nel finale accade l'impossibile: una base ritmica (composta da qualcosa di simile a dei raggi laser) viene scagliata a velocità folle tra le braccia della consueta sezione d'archi. Il matrimonio, seppur improbabile, sembra funzionare ed avere una certa logica: tant'è che la successiva titletrack si aprirà riprendendo lo stesso schema. Questa nuova fusione tra il sound tradizionale (rappresentato da fiati ed archi) e struttura ritmica (per lo più sempre in digitale) si rivela una formula felice in più punti del disco (ricetta che fece, tra l'altro, la fortuna di Matthew Herbert con la sua Big Band). Come in parte anticipato, si possono riassumere le novità apportate in questo lavoro sotto diverse prospettive. In primo luogo va evidenziato come tutta la struttura ritmica sia stata stravolta: davvero poco spazio per suoni analogici e molta sperimentazione con batterie elettroniche ed effetti. Il risultato è un sound molto sintetico che riesce a sfruttare intelligentemente interventi al limite del glitch e ritmi spezzati conditi di onnipresenti bitcrusher. Molto spesso non viene fatto uso di pattern costanti ma, al contrario, si gioca molto sui continui cambi di registro e su intermezzi molto eterei. Nell'insieme si ha l'impressione di avere un'ossatura che oscilla tra un suono molto saturo e impulsi e battimenti molto plastici. Gli archi e i fiati sono forse ciò che più rimane legato alle composizioni passate, salvo, però, fare un'uso spropositato di scale ascendenti e discendenti (che creano quella sensazione di vortice che accompagna gran parte dei brani). L'interazione tra questi due elementi condiziona, ovviamente, la stessa modalità compositiva e dona un ritmo molto più scostante e sperimentale ai brani. Va notato, inoltre, che i testi sono molto meno legati a tematiche religiose rispetto al passato: da questo punto di vista si può leggere quest'album come un viaggio all'interno della dimensione individuale (difatti l'uso della terza persona e i consueti riferimenti a fatti di cronaca sono quasi del tutto assenti) Infine, per tornare a quanto si diceva all'inizio di questa recensione, merita una menzione speciale l'uso della voce (mentre il banjo viene completamente messo da parte).
C'è un'opera di stravolgimento che influenza il modo stesso di cantare di questo artista. Aldilà di qualsiasi lavoro in fase di missaggio, lo stesso Sufjan lavora su timbri e tonalità a lui poco consuete. Si preferisce un andamento cadenzato e più fluido, in grado di dare senso di spazio e lontananza (in questo è coadiuvato dall'uso di cori e controcanti). Molto di tutto ciò si deve, soprattutto, all'uso di effetti e filtri. Pensare a questo cantautore alle prese con strumentazione di questo tipo (specialmente per chi era rimasto impressionato dal candore espresso dalla sua voce) avrebbe avuto un che di sacrilego. Invece, in quest'album, viene fatto largo uso di delay, reverberi e (addirittura) vocoder. Molte volte sembra che Sufjan, in alcuni punti, voglia osare troppo. Si evince, in particolare, nei momenti in cui è costretto ad affidarsi al suo modo tradizionale di usare la voce per venir fuori da ingorghi creati dalla sua urgenza espressiva. Molto rimane poco chiaro in quest'opera. Ci si potrebbe riferire ai 25 minuti della conclusiva "impossibile Soul" che, oltre a presentare momenti di altissimo livello, rischia spesso di sembrare un pasticcio di idee dando, in generale, la sensazione di continue e pleonastiche variazioni sul tema.
Difficile dare un giudizio netto su un album che affianca momenti davvero ispirati a clamorosi passi falsi. Vero è che già in passato c'erano state incursioni nel campo dell'elettronica (vedasi Enjoy tour Rabbit). Manca, forse, quel senso di sobrietà e misura che in passato aveva dominato molte ambiziose composizioni (nei live questa continua volontà di eccesso ed esagerazione viene personificata dai suggestivi costumi indossati dai musicisti e dallo stesso Sufjan). In definitiva, ci troviamo di fronte ad un artista sicuramente cambiato dai tempi di Illinois, ma di cui va apprezzata la volontà di rimettersi costantemente in gioco e l'onestà e tenacia che mette in ciò che produce. The Age of Adz ha spaccato la critica raccogliendo pareri discordi da più fronti. Personalmente ne riconosco l'altissimo livello, ma non posso che considerarlo un punto di partenza per qualcosa a venire.
Carico i commenti... con calma