Perdonatemi, infine, se continuo a tediarvi con Mathias Lodmalm, ma vi giuro che è l'ultima volta: ho fatto trenta, facciamo trentuno e recensiamo anche quest'opera prima dei Sundown.

Cerchiamo di usare un congruo numero di parole e non tirare troppo per le lunghe, tanto non ve ne frega un cazzo. Anno 1997: con gli occhi di poi possiamo sostenere con serenità che il mondo gothic/metal aveva già dato i suoi frutti migliori, ma all'epoca non ce ne rendevamo conto. Era tuttavia facile capire, anche in diretta, che questi Sundown, nonostante i nomi coinvolti, nonostante la buona promozione assicurata dal videoclip di “19” (che la notte girava abbastanza spesso su MTV), sarebbero stati una mezza ciofeca e che sarebbero durati il tempo di una scoreggia primaverile.

Da un lato abbiamo Mathias Lodmalm, il leader degli appena dissolti Cemetary che, pur vantando una certa storicità nell'ambito (fondati nel 1989, il loro primo full-lenght risale al 1992), non erano riusciti a far breccia nei cuori degli appassionati del genere. Dopo una serie di incomprensioni con l'etichetta Black Mark, Lodmalm decide di approdare alla Century Media e riadattare il materiale che probabilmente sarebbe stato la base per il nuovo album dei Cemetary, per dare vita a questo progetto che prende il nome proprio dall'album meglio riuscito dei Cemetary stessi, quel “Sundown” nel quale Lodmalm già stava spostando il suo songwriting verso i lidi di un basilare goth-rock debitore dei mostri sacri del genere, quali Sisters of Mercy e Fields of Nephilim.

Dall'altro abbiamo l'ex Tiamat Johnny Hagel, che lascia la band (ormai appannaggio esclusivo del padre-padrone Johnny Edlund) dopo l'uscita di “Wildhoney”: e se certo era noto che Hagel non fosse un autore di peso all'interno dell'economia del suono dei Tiamat, il riccioluto bassista rimaneva pur sempre colui che aveva scritto le musiche di un gran bel pezzo come “Gaia” (divenuto poi il brano simbolo della band, nonché quello più popolare), e qualche aspettativa, in effetti, la sua uscita allo scoperto poteva legittimamente suscitarla.

Ma invece niente, Hagel il visionario, Hagel il sognatore, non fa altro che iniettare un po' di sentore gotico al sound commerciale che Lodmalm e la Century Media avevano pianificato per questo progetto acchiappa citrulli: viene fuori che la collina non partorisce nemmeno il topolino, e “Design 19” sarà da annoverare fra i momenti più scialbi che la scena svedese abbia mai elargito in ambito gothic/metal. “Design 19”, a partire dall'insulsa copertina che non sa di niente e dall'insulso titolo che non vuol dire niente, è un album che davvero lascia il tempo che trova: povero sia nella qualità che nella quantità, mostra due artisti svogliati e poveri di idee, nemmeno troppo d'accordo sulla direzione artistica da imprimere al progetto (l'anima introspettiva di Hagel cozza in più di un frangente con la piacioneria fuori luogo di Lodmalm), e nemmeno capaci di mettere in fila trentaquattro minuti di sostanza. “Design 19” si compone quindi di dieci pezzi banali nella scrittura, scolastici nell'esecuzione, prevedibili nel loro sviluppo, salvo tre o quattro episodi in cui la premiata ditta Lodmalm/Hagel sa meglio mettere a fuoco la propria proposta, in ogni caso lontana, non solo dall'eccellenza dei Tiamat di allora, ma anche dalla concretezza dei Cemetary di sempre.

“19”, il singolone apripista, potrà anche piacere per la sua attitudine modernista, con quel ritornello gridato che infine è l'unico momento che può ricordare il passato fatto di metallo pesante dei due. “Judgement Ground”, la più dark del lotto (farina del sacco di Hagel), si fa minacciosa e possente, fra ossessive orchestrazioni, una prestazione vocale vampiresca ed un ritornello inquisitorio a base di canti ecclesiastici. “Synergy” rispolvera i Cemetary più coinvolgenti e rockeggianti; “Slither”, sebbene costituisca quasi un plagio della leggendaria “Temple of Love”, è un bel tuffo nella dark-wave più danzereccia. Ma il resto è davvero robetta, a partire dalla smorta opener “Aluminum”, passando dalla ballata senza mordente “As Time Burns” (sempre farina del sacco di Hagel), per finire con l'evitabile strumentale “112/Ghost in the Machine” dagli infausti toni metropolitani, con tanto di sirene della pula spiegate ed una inspiegabile coda a base di frequenze dissonanti, che palesa l'incompetenza del duo anche sul fronte della sperimentazione.

Poco incisivo, rispetto agli intenti sbandierati, l'operato di Hagel, che oltre al suo basso, si fa carico delle parti di elettronica e di quasi tutte le tastiere, maneggiate con estrema puerilità. Un'elettronica per poerelli è quella infatti che fa da contorno ad un lavoro che in definitiva non è per niente audace e che preferisce piuttosto guardare al passato, affondando saldamente le radici in un dark/rock di facile presa, imbolsito dai cliché urticanti del metallo gotico di quegli anni (strada che ahimé verrà intrapresa negli anni successivi dagli stessi Tiamat a partire dal mediocre “Skeleton Skeletron, e da altri nomi illustri della scena – ed in questo i Sundown hanno il merito di esserne stati tristi precursori). Lodmalm, di contro, ammorbidisce il suo approccio vocale, abbandona del tutto la raucedine del passato, giocando talvolta a fare il bel tenebroso, talvolta il sensuale cantore di gotiche passioni, ma rasentando in entrambi i casi il ridicolo: nella sua mente, probabilmente, gli sarebbe piaciuto calarsi nella parte del carismatico front-man, tanto che nella line-up viene accreditato solo come cantante, ma alla fine quel che si è fa uscire dalla porta sembra rientrare dalla finestra, e guarda caso in fondo al booklet si dice che le chitarre presenti sul platter vengono suonate in toto da Lodmalm.

In “Design 19”, in conclusione, c'è tanto Lodmalm, che firma quasi tutti i pezzi: nonostante la sviata artistica verso i territori del radiofonico, l'album sarebbe potuto anche uscire a nome Cemetary, in pochi si sarebbero accorti della differenza di monicker. Hagel, dal canto suo, perde alla grande il confronto a distanza con il vecchio compagno di merende Hedlund (dato che i Tiamat, quasi in contemporanea, daranno alla luce quel gioiello di introspezione che è “A Deeper Kind of Slumber”), e infatti Hagel, insoddisfatto, lascerà i Sundown, i quali continueranno ancora per un solo altro album ancora (Glimmer, del 1999) sotto la guida del solo Lodmalm, che finirà per chiudere definitivamente baracca e burattini e tornare all'ovile riesumando il nome della sua band storica, con l'operazione Cemetary 1213.

Ciao.

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