Aspettavo da tanto una reissue con annessa rimasterizzazione in vinile dell’album in questione essendo i sopracitati uno dei miei gruppi preferiti degli ultimi tempi (si avete capito bene, gruppo preferito).

Inutile iniziare con il dire chi siano e cosa facciano Greg Anderson e Stephen O’Malley in questo progetto ormai più che ventennale, sapendo già che prendono il loro nome da una marca di amplificatori e suonano una sorta di Drone metal, sfiancante, che man mano si è auto contaminato con varie sperimentazioni provenienti da lidi più o meno distanti: vedasi musica sacrale e free jazz nel capolavoro Monoliths & Dimensions, black Metal in Black One, dark Ambient nei due White album, e appunto, harsh noise e sperimentazione rumorista nel qui recensito.

Flight of the Behemoth è datato, conta ormai 18 anni sul suo groppone, ma attesta più di qualsiasi altro album, cosa i due balordi incappucciati avevano in mente, già da allora, per rendere tangibile e longevo il loro progetto madre: sperimentare nuove soluzioni chiamando di volta in volta ospiti che soddisfacessero e completassero il mood generale che l’album richiedeva.

Grazie a questo escamotage i due sono riusciti a portare avanti il verbo dinamicamente in un genere che di dinamico ha ben poco (e vi sembra poco?).

In questo terzo capitolo, se si conta come album anche Grimmrobe Demos, si fanno forza del guru dell’elettronica rumorista, tale Masami Akita, in arte Merzbow, genio del male che con le sue divagazioni musicali (musicali?) martella e perfora i timpani di chi ascolta: dopo i 20 minuti canonici, infernalmente e puramente drone, delle prima due tracce, fuse una nell’altra, a creare una suite malevola, in stasi perpetua, nera come un mare in tempesta che tutto assorbe e inghiotte, arrivano le due O))) Bow ad innalzare il vessillo harsh su tutti noi: pianoforti distorti e scordati, rumori penetranti e quasi industriali, dinamismo perforante ed intimorente, volumi esagerati e orecchie sanguinanti, atmosfera cupa, irreale e iperdistorta. Questo sono le due marce che vedono Masami salire sugli scudi e far delle schitarrate dei nostri qualsiasi cosa lui voglia.

In chiusura arriva una cover, dei metallica, che qui, ovviamente rallenta, si allunga, si incupisce, presentando l’unico rantolo vocale dell’album e anche l’unico sprazzo di ritmica (seppur sommersa dai bordoni chitarristici dei nostri) di tutto l’album.

Un ottima chiusa per un album forse non perfetto, ma che nella sua imperfezione sa affascinare e sa proiettare una luce (si, luce, come no) su ciò che avrebbero fatto da lì a poco i due monaci incappucciati con i successivi lavori.

Bellissima ovviamente la versione in vinile, con un remastering che rende più avvolgente e meno spigoloso il suono: doppio vinile glow in the dark in edizione limitata con annesso poster e packaging da urlo.

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