Ho questa vecchia cassetta che si chiama «Freedom of Choice», non importa come e perché.
È una raccolta di brani del periodo a cavallo tra la fine dei '70 ed i primi '80, approssimativamente riconducibili al filone wave, rifatti da gruppi più o meno in auge nel decennio successivo, tra loro alcuni bei nomi come Sonic Youth, Redd Kross, Mudhoney, Yo La Tengo.
I Sonic Youth aprono la rassegna con un rovinoso e rumoroso rifacimento di «Ca Plane pour Moi» di Plastic Bertrand, la chiudono i Superchunk con la loro versione scartavetrata ed urticante di «Girl U Want» dei Devo.
«Freedom of Choice» esce nel 1992 e, a quell'epoca, i Superchunk hanno fuori due album, l'omonimo esordio e «No Pocky for Kitty»; non sono ancora molto conosciuti e solo qualche anno dopo qualcuno inizia a citare «No Pocky for Kitty» tra gli album fondamentali per definire le coordinate del suono indie degli anni '90 e pure di quelli a venire, soprattutto grazie all'opera delle radio dei college statunitensi che su quel disco erigono un piccolo culto carbonaro.
È allora che i Superchunk potrebbero saltare a piè pari sotto la luce dei riflettori ma non hanno tentennamenti, rifiutano la corte di tutte le majors che spediscono emissari a bussare alla loro porta sventolando contratti a cinque a zeri e restano accasati alla Merge, la casa discografica che hanno messo in piedi per preservare la loro visione del “fare musica”.
Mentre la Merge si fa un nome ed accoglie esponenti di spicco e belle speranze della scena indie, i Superchunk proseguono con regolare costanza la loro carriera musicale, senza variare troppo la formula, un power-pop che tende con decisione al punk-pop e richiama, per certi aspetti, l'attitudine e la filosofia sonora degli ultimi Husker Du, quelli di «Candy Apple Grey» e «Warehouse: Songs and Stories»; avessero voluto, sarebbero potuti salire sul carro degli Weezer che fanno sfracelli per una stagione – anno domini 1994, «Buddy Holly» – ma i Superchunk non sono gli Weezer, sono decisamente meglio.
Arrivano così a pubblicare otto album tra il 1990 e il 2001, senza accusare mai cali di passione e ispirazione, poi il silenzio e la certezza che la storia dei Superchunk è giunta alla parola “fine”. Macché: nel 2010 il ritorno – ottimo, «Majesty Shredding» – un altro album nel 2013 e poi altri cinque anni di attesa.
A febbraio 2018 esce «What a Time to Be Alive», tempi troppo grigi per viverci dentro: i tempi sono quelli di Donald Trump assiso nello sala ovale della Casa Bianca e questo è il primo album “politico” dei Superchunk. E però, se l'elezione di Trump è stato il pretesto per opere di assoluto rilievo come «Cost of Living» dei Downtown Boys o «Invitation» dei Filthy Friends o quest'ultimo Superchunk, allora lunga e prospera vita al presidente.
Perché «What a Time to Be Alive» è un grande album ed il modo migliore di riassumerlo è prendere a prestito le parole di Mac McCaughan: «Sarebbe assurdo stare in un gruppo, o almeno in questo gruppo, fare un disco e fingere di ignorare il contesto in cui dobbiamo vivere e i nostri figli crescere. È un disco sulla situazione terribile e deprimente che ci troviamo ad affrontare ma non è un disco terribile e deprimente da ascoltare.».
Al contrario, «What a Time to Be Alive» è un disco colmo di passione e rabbia che si risolvono nell'avversione per stato delle cose e che, per parafrasare Joe Strummer, non ti fanno accettare stronzate come risposte ma ti portano a cercare la verità, a dirla oltre che a volerla sentire; qualcosa di strettamente legato alla gioventù e agli impulsi giovanili, e allora non è un caso se il fulcro dell'album è in tanta parte nella splendida «Reagan Youth» e nella constatazione che: «A dire il vero, c'è stata più di una gioventù reaganiana.».
Spiriti punk indomiti, i Superchunk, e gusto per la melodia altrettanto marcato che emerge con prepotenza dalla valanga di suono di due chitarre, basso e batteria in brani come lo straordinario «Erasure» – ulteriormente nobilitato dalla presenza di Stephin Merritt dei Magnetic Fields – e nelle ballate (punk, ma pur sempre ballate) «All for You» e «Black Thread» che chiudono l'album.
E allora, col senno di oggi, è come se i Sonic Youth che aprono le danze in quella cassetta famosa di cui dico all'inizio, cedessero il testimone ai Superchunk che la chiudono, per mantenere saldo un certo concetto di indipendenza, coerenza e dignità, non solo in musica.
Gruppo straordinario, i Superchunk.
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