Questa quinta fatica di studio dei Supergrass (pubblicata poco dopo ferragosto a quasi tre anni di distanza dallo stravagante "Life On Other Planets") è destinata probabilmente a segnare un punto di non ritorno nella carriera dell'ora quartetto (con l'aggiunta in pianta stabile del cugino di Gaz Coombes alle tastiere) di Oxford, capace di tirare fuori dal cilindro autentiche gemme di frizzante punk pop nella seconda metà degli anni '90.
"Road To Rouen" è il disco che viene immediatamente dopo la retrospettiva "10" uscita l'anno scorso e che alla luce dei primi ascolti rappresenta la conclusione dell'epoca "spensierata" di questo gruppo sopravvissuto (non senza qualche passo falso) all'ondata britpop di 10 anni fa: bisogna infatti premettere che la cazzonaggine e la solarità dei Supergrass sembrano ormai lasciate definitivamente alle spalle per un approccio più meditato, riflessivo e intimo, a testimonianza di una maturità artistica finalmente raggiunta.
Questa "maturità" (sincera sebbene quasi ostentata) tuttavia presenta, analogamente ad altre "svolte" di altre pop bands inglesi, due lati sui quali si può discutere per lungo tempo: nel corso dell'album non privo di un certo fascino (brilla di autonomo splendore la delicata ballata "St.Peterbourg" scelta come singolo e relegata a un ingiusto n.22 nelle charts inglesi) mi è parso di capire che l'intenzione del gruppo era quella di realizzare un album "da viaggio", ideale per l'autoradio, in uno stile che ricorda molto da vicino le sonorità del rock americano degli anni '70 (Neil Young e Eagles in primis) con una propensione verso brani dal tono amaro e vissuto (sicuramente ha avuto il suo peso la recente scomparsa della madre di Gaz).
E' quindi un album esattamente "da fine estate" e che presenta soluzioni stilistiche molto distanti dal colorato glam pop degli ultimi lavori, riprendendo in un certo senso l'intimismo del disco omonimo del 1999, per esempio nell'iniziale "Tales Of Endurance (Part 4,5 and 6)" che ricorda i Pink Floyd acustici, oppure la cadenzata "Low C", una ballata appunto molto seventies e molto triste.
Lo sguardo è rivolto a evocare atmosfere un pò decadenti e bohemienne, con una malinconia di fondo solamente accennata nei precedenti lavori: fanno eccezione lo strumentale "da stazione AM" "Coffee In The Pot" e la title track pericolosamente vicina a certe "americanate" degli Stereophonics (per quanto dotata di una produzione piuttosto elegante).
Il giudizio comunque è decisamente positivo, e addirittura sarebbe potuto essere entusiasta se tutte le tracce avessero tenuto la struggente tensione della conclusiva "Fin" che nel suo commovente minimalismo vale l'intero e strabordante ultimo disco dei Coldplay.
L'aspetto meno felice è la constatazione che questi, per quanto convincenti e cresciuti, non sono i Supergrass che eravamo abituati ad ascoltare: non c'è ironia, non ci sono ammiccamenti scherzosi alle classifiche, non c'è il fancazzismo punk... Gaz e soci ormai hanno 30 anni, e nei momenti più alti del disco a prevalere sono sentimenti di nostalgia, amarezza, malinconia, in cui i suoni del passato non sono più utilizzati come dispettose citazioni ma come sfondo a riflessioni intime sostenute da un songwriting poetico e ambizioso.
Rispettando appunto una "regola" degli anni '70, il disco contiene appena 9 brani per un totale di 35 minuti scarsi di durata: poco per un ritorno tanto atteso dagli appassionati, che già potrebbero rimanere spiazzati dal "cambio di rotta" di questo album.
Inoltre, la cover per la prima volta non presenta i faccioni del gruppo, particolare di non poca importanza: segno che forse qualcosa è cambiato davvero in casa Supergrass.
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