Uh-oh! Ci fanno notare che questa recensione compare (tutta o in parte) su MusicClub
Torno a parlare di un autore già recensito da me, con l'occasione di questo album del 1999, ma scoperto solo pochi giorni fa. "Sakura" così vengono chiamati alcuni frutti dalla breve fioritura che maturano nelle estati nipponiche. Questa rara opera di sconfinata bellezza e illimitata grazia è frutto invece di tal Susumu Yokota, oramai una firma storica per chi bazzica nell'elettronica ambient internazionale. Conosciuto in Europa per i lavori "house- oriented" come gli album "1998", "1999" e "Zero" usciti per la Sublime Records, questo "Sakura" (uscito per la LEAF, vi dice nulla?) lo conferma come uno dei più intelligenti e raffinati produttori di nuovi suoni in circolazione.
L'album ha la leggerezza e tutta la grazia di un fiore appena sbocciato: uno strano incrocio tra esperimenti acustici tradizionali e le atmosfere evocate della contaminazione dell'elettronica più calda ed avvolgente. Con la pubblicazione di questa perla rara si conclude l'ideale trilogia ambient di questo produttore giapponese che, negli ultimi 15 anni, ha prodotto ben 14 album, destreggiandosi arditamente tra techno, house e ambient, appunto. "Sukura" riparte con 12 pezzi, in cui le idee vengono dilatate, rese quasi immobili nella loro fluidità, interiorizzate, rese eteree ed inafferrabili, nascoste tra lievi loop ipnotici di rara intensità. in un'atmosfera ambient che azzera ogni classificazione di genere, portando il sublime e tracce di illuminazione in territori quasi mistici. C'è poco da spiegare e mi rendo conto di usare troppe parole. E' come tentare di descrivere l'intensità di un tramonto, la poesia di una nuvola in formazione, la leggerezza di una canna di bambù piegata dal vento: è un esercizio sterile e inutile che non darà mai la pienezza dell'emozione vissuta.
In certi casi bastano poche parole, le meno possibili e lasciarsi solo trasportare ad occhi chiusi in mondi lontani. Gli stessi mondi esplorati da gente come J. Cage, Brian Eno o i più vicini Pan American. Insomma: un magico perdersi.
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