Afferra la mia mano finchè è aperta
"Days Of Open Hand". Sin dalla prima volta che ho letto questo titolo mi sono sempre chiesto come si potrebbe tradurre: 'giorni di mano aperta' o parafrasando, 'giorni in cui la mano è aperta' ? Ogni interpretazione mi dà un senso di urgenza, di fragilità, di equilibrio labile. La copertina poi, con Su zanne che appare dal nero in una cornice surreale decorata di mani ha un che di misterioso, di esoterico quasi. Titolo e copertina riescono a comunicare bene il tono spirituale e la pregnante ricercatezza del terzo disco di Suzanne Vega. Un disco non immediato, che è cresciuto in me dopo molti ascolti, e soprattutto, dove i testi sono un tesoro nascosto.
Reazione e crescita ai due capolavori precedenti, è da qui che avviene il distacco dal repertorio folk dei primi due album, che negli '80 stupirono la critica per aver riportato di moda qualcosa che sembrava ormai passato: la figura del cantautore con la chitarra, cosa rara in una decade molto artificiosa di elettronica e plastica. E' con questo disco che Suzanne intrometta le nuove sonorità (un po' in ritardo: il disco è del '90) e le fa sue attraverso un uso di tastiere e sintetizzatori cupo e del tutto nuovo nella sua produzione, creando atmosfere oniriche e oscure in cui il tempo si ferma, dove le parole restano sospese tra visioni, veglia e attese infinite.
L'iniziale "Tired Of Sleeping" è un valzer di mandolini dal ritornello luminoso, ricco di immagini estremamente vulnerabili, voce di un bambino che ha fretta di nascere. "Men In A War" è una ritmata metafora rock sui mutilati di guerra, che insieme alle gioiose e scanzonate fantasticheria di "Book Of Dreams" sostiene il tono della raccolta, nell'insieme molto più dimesso.
Così si apre la solenne "Rusted Pipe" su un organo enfatico, abreazione di un trauma spesso affrontato dall'autrice: l'incomunicabilità, la ricerca di un senso alle parole, qui guidata da un intenso sfondo elettrico e un crescente coro a due voci. E' uno dei pezzi più improntati alle sonorità ‘80s, insieme a "Big Space", dall'imponente suono sintetico. La lunga, eterea "Institution Green" è una suite di molti strumenti ma ognuno è come appena accennato, la melodia è una lenta processione che avanza un passo alla volta e il tema delle liriche è uno dei più originali: il potere disumanizzante delle istituzioni pubbliche, raccontato attraverso una quotidianità che purtroppo sembra non avere un lato spirituale.
L'ipnotica e ossessiva "Those Whole Girls" invece si regge solo su arpeggi reiterati, ha un'inquietante atmosfera ultraterrena dove i monosillabi appaiono dal buio e cadono regolari come gocce nel nulla. Sembra quasi un' introduzione a quel capolavoro che è "Room Off The Street", ballata gitana di un donna ubriaca d'amore, che balla da sola al suono di chitarre latineggianti e flauti e percussioni zingareschi. Predictions è una cantilena mistica e fumosa, arricchita da percussioni etniche e un e-bow orientaleggianti, fumo di incenso che prende forma nella finale "Pilgrimage", solenne elogio all'infinito cerchio della Vita.
Ma il punto nevralgico, di massima fragilità è "Fifty-Fifty Chance", storia di un tentato suicidio. Si tiene in equilibrio tra la vita e la morte su un violoncello drammatico e un violino struggente. L'analiticità delle strofe è sconcertante, le promesse nel ritornello commuoventi, il finale, da brivido: "Will she try it again?"
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