Post rock e Belgio. Assioma inesistente. Viene quasi naturale associare il post rock come genere ad altri lidi… al Canada, alla Scozia, all'America. Ma il Belgio? Celebre per la cioccolata, le birre d'abbazia, i frutti di mare e qualche gruppetto indie di dubbia caratura (…). Ed il post rock in tutto questo? Assente, latita. Eppure qualcosa si muove. Eppure anche il Belgio si scopre terra ombrosa e meditabonda, priva di sole.

È un rumore di fondo a proiettarci all'interno di questo disco, e poi un arpeggio di chitarra a fare gli onori di casa. Una voce narrante, che sarà ben poco presente, sussurra, quasi a rendere l'atmosfera ancora più rarefatta, preludio di quello che verrà.
In "Microbacterium Leprae" chitarra, violino e violoncello si accordano, sovrastando la trascurabile parte vocale. La musica prende corpo, si delinea e si fa più decisa. Chitarra e violino si alternano nel ruolo primario in armonia perfetta, per poi scemare insieme, lasciando spazio al violoncello.
Il canto di cicale elettroniche apre "Everybody Takes the Plane", lamento struggente che aggiunge al disco il carattere e la singolarità che gli sono mancati finora. La chitarra, prima soffice e poi violenta, conduce il pezzo, prendendolo per mano, finché il violino non ne diventa magistralmente protagonista. Il fiato viene mozzato da ogni sussulto di violino, mentre la chitarra lo accompagna, senza però rubare le luci della ribalta.
Non c'è verso di rimettere i piedi per terra: "Creutzfeld Jacob" (infausto nome della variante umana del virus della mucca pazza) ci porta nello spazio, letteralmente, con un sample di una missione dell'ESA, l'agenzia spaziale europea. Siderale, a tratti arabeggiante, brano più psichedelico di quelli che l'hanno preceduto. Le volte del cielo si rifanno terrene per "Things are Bigger Than They Appear" che inizia, morbida ed avvolgente, come semplice cornice sonora per un'essay bukowskiana sulla poesia. Le parole cessano e lasciano la scena aperta ad una mini suite che cambia più volte aspetto nell'arco della sua durata; la musica a tratti s'addolcisce ed a tratti s'infiamma nuovamente, quasi a seguire le variazioni del paesaggio di un fantomatico viaggio. 16 lunghissimi minuti che sfiorano la prolissità. "James Piano" arriva come una stilettata: il pianoforte è protagonista unico ed indiscusso, gelido nell'involucro caldo ed ospitale che gli archi hanno creato. Un breve crescendo veemente che risveglia i sensi intorpiditi, come se i martelletti del pianoforte, invece di picchiare sulle sue corde, picchiassero su quelle dell'animo, agitandolo ed esortandolo a seguire questa folle rincorsa che si conclude, come il disco, in "New James", lunga e concitata suite in cui gli archi eseguono spiraleggianti variazioni sul tema.

Il fiato è corto, la mente provata, il fisico stremato, quasi come dopo essere stati sballottati da un mare in tempesta. Mare che, a quanto pare, bagna anche le coste del Belgio.

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