Facciamo un gioco tutti insieme. Il gioco si chiama "crea il mostro lo-fi anche tu, è facile", il che in effetti non significa nulla, ma molte cose di questa recensione non significano nulla. Iniziamo.

Per prima cosa prendete quel depresso squilibrato di Mark Linkous degli Sparklehorse, e trattatelo male, a lui e ai suoi cavalli del cazzo: ditegli - chessò - che in questo momento state ascoltando "A horse with no name" degli America, ne morirà. Se per caso vi offre una canzone, voi rispondetegli: "Homecoming queen", grazie, bellissima.
Prendete quel campagnolo sfigato di Jason Lytle dei Grandaddy, e prendetelo a parolacce: ditegli - chessò - che tanto col barbone o senza è inutile che si lamenti sempre in ogni canzone, tanto le donne non possono dargliela. E' contro natura. Se per caso vi offre una canzone, voi rispondetegli: "Hewlett's daughter", grazie, bellissima.
Prendete quel pazzo da ricovero di Daniel Johnston, e fatelo sentire una merda (sempre che non ci riesca da solo): ditegli - chessò - che se questa è "bassa fedeltà" allora le registrazioni blues dei coltivatori di cotone degli anni '30 che sono, solo "fedeltà"? Se per caso vi offre una canzone, voi rispondetegli: mezzo "Fear yourself", grazie, bellissime.
Quindi prendere quel presuntuoso fighetto di Stephen Malkmus, e fategli venire la depressione; ditegli - chessò - che vi siete innamorati dei "Preston school of industry" e che in effetti i Pig Libs sono delle mezze seghe (beh, in effetti un pò mezze seghe lo sono). Se vi offre una canzone, voi rispondetegli: "Major leagues", grazie, bellissima.
Ecco, abbiamo creato il mostro: David Freel.

La prima volta che mi imbattei in Freel fu perchè mi fece ridere. Quando qualcuno la prima volta mi fa ridere, io divento la sua rovina: mi ci appiccico addosso come una cozza ad uno scoglio.
Inutile dire, quella fu la prima e ultima volta che Freel mi fece ridere.
L'album in questione era "For all the beautiful people" (che titolo idota, pensai), la grafica in questione, invece, la più tamarra che avessi mai visto, il tutto in sole tre pagine. Nella cover, una orrida scritta bianca fosforescente su sfondo nero, stile gothic; sul retro, invece, un vecchiaccio con la faccia di merda alla Johnny Cash mi mandava poco nobilmente a prendermelo nel culo (massimo rispetto per zio Johnny, lui sa cosa intendo, ma la faccia quella è). Nell'ultima pagina, infine, sotto l'ennessimo tramonto del cazzo già visto in altre miliardi di occasioni (sono tutti uguali, 'sti tramonti) campeggiava una scritta traducibile più o meno così: "non me ne frega un cazzo delle leggi del copyright e bla bla bla, la verità è questa: tu copia questo disco e io prima o poi ti acchiappo". Inutile dire, fu colpo di fulmine. Io quando incontro qualcuno coì idiotamente irresistibile divento la sua rovina: mi ci appiccico addosso come un tramonto del cazzo su una cartolina.

La musica, ora. Sfilano immerse in una atmosfera depressa e rovinosa canzoni sghembe dai titoli quali "Io odio il Natale", "Pioggia Rosa" e "Latte nero", "Stanotte" e "Oggi" (e ho detto tutto, avrebbe concluso De Filippo). Umori notturni e chitarre lamentose che sfiorano i lidi cupi dei Black Heart Procession. Bassi circolari e oppressivi (l'iniziale "Today"), ritornelli apparentemente leggeri ma appoggiati a geniali intarsi di batterie sbilenche e cantato distaccato ("Make up your mind"). Qualcosa ricorda i Low più obliqui ("Oh, my my"), ove invece la chitarra si fa più sporca e secca alla mente si fanno vivi ricordi Go-betweens ("Off in my head", "Swill 9"). "Everything is good", con la sua melodia frastagliata ricorda qualcosa del primo Dylan; "Tonight" l'irrequietezza di un Bill Callahan sotto acido.

Se mai un disco dovesse ricevere l'etichetta di lo-fi (a parte le registrazioni dei campi di cotone negli anni '30), questi sicuramente sarebbe un disco degli "Swell", e non importa che sia il migliore del lotto, "41", o "For all the beautiful people", o qualsiasi altro lavoro in una discografia ormai enorme (se ne contano ad oggi 7). Gli "Swell" sono, semplicemente, la più cazzara, geniale e storta one-man band degli ultimi anni.
E non me ne frega niente se quel vecchiaccio dalla faccia di merda sul retro si è dimostrato prevenuto nei miei confronti fin dall'inizio: a me quel cd ogni volta che lo metto, piace sempre. E magari c'ha pure ragione: a volte è proprio bello, andarsene a fare in culo con gli "Swell" nelle orecchie.


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