Da buon barrettiano terminale ogni tanto riprendo in mano la mia copia de "Il vento nei salici" e leggo poche righe a caso, assaporando ben benino le parole.

Poi, prendendo a prestito la melodia piena di sonno di “Terrapin” o il ritmo scoppiettante di “Octopus”, mi metto a canticchiarle, magari rielaborando e rimeggiando un po'. E' un gioco che mi ha insegnato il mio amico Edgar tanto tempo fa.

Si lo so, il settimo capitolo di quel libro fantastico ha lo stesso titolo del primo album floyd, ma son sempre le canzoni di “Madcap” a venirmi in mente.

“Madcap”...La prima volta che l'ho ascoltato mi son detto: oh no, no non è possibile... io voglio vivere qui, in questa bolla magica, in questa grazia claudicante e sbilenca.

E ho un pochino abbandonato “Piper” e il “Syd” fresco e sbarazzino, quello dal suono potente e deragliante e dalle melodie di zucchero screziate d'acido.

E mi son preso quell'altro ”Syd”, quello assonnato, quello che ogni tanto scoppietta come una vecchia stufa o come un colpo di tosse e che suona giri di chitarra che sembrano zattere sempre sul punto di affondare.

E non ero solo in questo delirio, c'era anche Edgar. Che si, eravamo davvero terminali. E facevamo cose folli, o magari solo sceme.

Per esempio immaginavamo di essere gli autori di un dizionario barrettiano e ci inventavamo definizioni secche delle canzoni, tipo "un viaggio dentro le bollicine un attimo prima che stiano scoppiando come un blues suonato da un menestrallo indolente che nemmeno sa di star suonando (“Terrapin”); oppure "favoloso e mirabolante tour de force verbale su una musica capricciosa e scoppiettante, quasi prendesse vita l'abbecedario dei fenomeni metereologici o l'enciclopedia ardente dei sussulti" (“Octopus”).

Ah volte poi ci arrendevamo, che per un brano come “Long gone” davvero non avevamo parole ( e difatti cos'era blues, folk, psichedelia?), o prendevamo appunti segnalando, per esempio, che i tocchi d'organo di “No good trying”guizzavano come serpentelli.

Oppure facevamo la coppa dei campioni delle canzoni di “Barrett”, partendo dai sedicesimi di finale, facendo i sorteggi con bigliettini con su scritti i nomi delle canzoni.

Edgar comunque tra i due era il più geniale Fu lui che, appassionato di folk, inglese ma anche italico, scovò in una serenata marchigiana una stretta parente di “Golden hair”.

Oddio per lui era una stretta parente, io non ne ero così sicuro.

“Golden hair” (“affacciati alla finestra capelli d'oro”) è quella meraviglia delle meraviglie di “Madcap”, quella cosuccia solenne, con echi e riverberi notturni, lucciole in qua e in la, e voce da brividi.

Poi Edgar conservava come una reliquia un disegno di un trilobite dai colori squillanti (giallo, arancione, blu e rosa), l'aveva rubato alla nipotina di sette anni e sosteneva che fosse il bruco di “No good trying”

E traduceva le canzoni, senza saper quasi niente di inglese. Il suo metodo non era certo il massimo, visto che si limitava a incrociare diverse traduzioni che conosceva e quando poteva faceva da solo rischiando di prendere delle clamorose cantonate.

Ad esempio se vi dicessi “lei vagava sul ponte, sull'acqua, poi cessando il suo lento avanzare, si allontanava da quell'espandersi, lei sola inebriata, lei sola nascosta nella piccola valle del mio sguardo”, dovrei anche dirvi che questo è “Barrett” solo al cinquanta per cento e sarebbe culo se fosse di più. Comunque non importava, tanto l'inglese nemmeno io lo sapevo.

E comunque sto pezzettino di testo (Edgar/ Barrett) è tratto da “Feel”, brano sottovalutatissimo e che invece è un cazzo di lieder, una “Golden hair” in sedicesimo con un di più di sgangherata imperfezione, solenne certo, ma come fuori giri, che qui si strimpella e non si è tanto fighi.

Che qui siamo in presenza di un folk/blues psichico anche se conserva ancora un pochino della polverina di Trilli e davvero il minimo indispensabile, visto che con quel finale (“appena me ne andrò su una ruota ondeggiante loro colpiranno, il singhiozzo strozzato, il suono di una campana malefica”) Trilli non c'entra proprio. E' un testo magnifico questo e a me ricorda addirittura (magari esagero) certe “Illuminazioni” di “Rimbaud”.

Era fantastico Edgar e lo è ancora, anche se negli anni è andato un pochino fuori di testa. A casa ho un romanzo che ha scritto, una cosa senza ne capo, ne coda. Ma ad aprirlo a caso funziona comunque piuttosto bene. E anche quegli spizzichi di saggezza/follia son ottimi pesci per il retino delle melodie barrettiane.

Esattamente come quel romanzo, “Madcap “è qualcosa di abnorme, “un dipinto grande quanto una parete” secondo la celebre definizione dello stesso “Syd”, e senza nemmeno i chiodi per appenderlo, aggiungeva Edgar.

Ma forse la frase era “grande quanto un soffitto”, non ricordo bene.

Geniale e capriccioso, “Madcap” va in tutte le direzioni concedendosi soste nei luoghi più impensati e lo fa triturando i generi, perché ogni canzone è un genere a sé, tra svagatezza e improvvise scintille, tra scherzi vaudeville e canti da ubriaco, fra folk sepolcrali e notturne ballate struggenti. Eppure in mezzo a tutto questo casino, che era forse il casino di un anima, riesce ad essere spoglio, essenziale, basico. Quasi un film a basso costo, rispetto al kolossal piperiano.

A basso costo e con pellicola sgranata.

E dello splendore antico rimane traccia forse solo nella già citata “Golden hair” e in “Octopus”, che sono poi i due carichi da undici del disco.

“Octopus”, summa per eccellenza dell'immaginario barrettiano, è tutta giocata sulla ritmicità delle parole, e da l'idea di un mazzo di carte fantastiche, sparigliato e lanciato in aria. Rimando a “Rob Chapman” e al suo “Un pensiero irregolare,” per una mappa esaustiva delle molte citazioni di tutta una serie di oscuri ed eccentrici autori britannici. Son pagine che tolgono il fiato come del resto fa la canzone.

Si, “Octopus” e “Golden hair” volano ancora grazie alla polverina di Trilli, ma è in altre canzoni il cuore del disco, in quei notturni sull'assenza semplici e toccanti (“Dark globe”, “Late night”, “Feel”), o nell'indolente e ipnotica “Terrapin”, quella delle bollicine che stan per scoppiare.

“Qualche volta mi sento così solo e irreale...” canta in “Late night” accompagnato da una chitarra che disegna giochi di luce da lanterna magica.

“Ho tatuato il mio cervello in ogni modo, non ti mancherò, non ti mancherò un pochino?...” canta con voce sguaiata in “Dark globe” accompagnato da una chitarraccia da osteria.

Tutto insolitamente commovente per uno che era stato pop, magico, misterioso e, iper artistico. Ma commovente mai.

Le canzoni di “Madcap” son state per me l'apparire luminoso di qualcosa che non pensavo esistesse, una musica scarnificata e pigra, dilettantesca e infantile, capace come poche altre di accarezzare il cuore e l'anima.

E ho sempre visto “Syd Barrett” come un busker mistico/stellare in grado di far svolazzare quel farfugliamento interiore destinato altrimenti a soffocare nella polvere.

Peccato non gli sia servito a molto.







Carico i commenti...  con calma