Quando una band viene da un paio di album in cui ha estremizzato/indurito significativamente la propria proposta la domanda che sorge spontanea alla notizia di un nuovo album in arrivo è più o meno sempre la stessa: proseguiranno su quei territori estremi o torneranno indietro a qualcosa di più moderatamente heavy?

Con questo spirito un po’ tutti i fan dei Symphony X si sono avvicinati ad “Underworld”, nono lavoro in studio per la band power prog statunitense. Il loro stile è stato infatti moderatamente duro e con notevoli aperture sinfoniche, neoclassiche ed epiche nei primi 5 album, è diventato più tagliente e cattivo già in “The Oddysey” mantenendo comunque intatta la vena neoclassica e presentandosi come un ottimo anello di congiunzione fra due periodi per poi diventare seriamente più duro e dal tocco più moderno con “Paradise Lost”, confermando poi la svolta con il più tecnologico “Iconoclast”.

“Underworld”, per fortuna o purtroppo a seconda delle preferenze, segue la linea adottata dagli ultimi Symphony X. Ancora chitarre molto pesanti e riff taglienti, voce di Russel Allen ancora tendenzialmente incazzata e approccio moderno ma a detta di molti relegato ad un ruolo di secondo piano del tastierista Michael Pinnella. Un disco da prendere con i suoi pregi e i suoi difetti che regala una bella oretta di ottimo metal e qualche idea interessante; tuttavia l’impressione è che proprio le idee più nuove presenti al suo interno potevano essere approfondite meglio; “Iconoclast” con i suoi innesti elettronici e in un certo senso “cibernetici” e “futuristici” forse riusciva meglio in tale intento; l’album comunque risulta avere una buona varietà di soluzioni anche se tutte rispondenti ad un denominatore comune; bisogna tenere conto che stiamo pur sempre parlando dei Symphony X, band che non trova di certo nella sperimentazione e nella ricerca il proprio punto di forza.

Un paio di brani comunque riescono nell’intento di colpire l’ascoltatore. La potente title-track ad esempio colpisce per i suoi limpidi synth iniziali, a dimostrazione di come le tastiere pur essendo in secondo piano rispetto alle chitarre svolgono in realtà un ruolo importantissimo, spesso sottovalutato; inimmaginabili sarebbero senza di esse brani come “Run With The Devil” (con anche interessanti effetti nel ritornello) e la conclusiva “Legend”, dove assistiamo a imponenti passaggi ed intrecci. “Kiss of Fire” propone degli insoliti blast beat mentre dopo aver ascoltato “Charon” ci si mangia veramente le mani: chissà che brano della madonna sarebbe stato se quei suoni orientaleggianti nel ritornello fossero stati più presenti e magari non soffocati dalle chitarre, così come anche i particolari effetti che chiudono magistralmente il brano; qui mi ricollego al discorso già fatto nella mia recensione sull’ultimo lavoro dei Sylvan, ovvero bisognerebbe sperimentare con meno timidezza e con il freno a mano decisamente più rilasciato. Un brano che sembrerebbe riuscire molto bene in questo intento è senz’altro “To Hell and Back”, non solo per l’ottimo lavoro delle tastiere ma anche per il mood insolito che caratterizza soprattutto i primi minuti: quella chitarra non troppo dura e incredibilmente melodica nonché gli arpeggi tastieristici continui e regolari sembrano addirittura catapultarci nell’AOR; grossomodo quasi un incrocio fra i primi Dream Theater (come non pensare ad “Under A Glass Moon” sentendo quell’intro) e i Saga dei primi 3/4 album; poi il brano prende una piega simile a quella degli altri ma i primi minuti bastano a farci parlare di ventata di freschezza. Paradossalmente però il brano che più mi ha fatto parlare di ventata di freschezza è la tanto osteggiata e per molti pacchiana “Without You”: quel sound elettroacustico delle strofe mi ha perfino ricordato i recenti Rush di “Snakes and Arrows” (quelle pennate veloci prima del ritornello mi hanno fatto addirittura venire in mente “Far Cry”) mentre il ritornello sfocia quasi nell’alternative rock/metal più moderno e catchy rendendo leciti paragoni con gruppi come Alter Bridge e Nickelback; sarà pure ruffiana e MTV-friendly ma è sicuramente una novità per la band, ben vengano pezzi così.

I brani meno interessanti invece sono senza dubbio le più puramente metal “Nevermore” e “In My Darkest Hour”, dirette e potenti quanto basta, due buoni brani ma che sicuramente non fanno gridare al miracolo. L’Overture del disco invece è nel classico sound orchestrale e hollywoodiano tipico di alcune loro aperture. A ulteriore prova del fatto che ancora qualcosa del vecchio sound più melodico dei Symphony X persiste abbiamo “Swansong”, delicata per tutti i suoi sette minuti e mezzo e più che mai guidata dal piano.

Il giudizio finale è quello di un album abbastanza di maniera ma non troppo, rimane comunque il rammarico per quella manciata di soluzioni interessanti che non vengono sviluppate a dovere. Né vincitori né vinti… no, forse un vincitore c’è: è Russel Allen, il cui timbro vocale è sempre piuttosto vario, risultando melodico a volte, incazzato altre, roco in alcuni frangenti, caldo in altri, a tratti pure un tantino virtuoso; forse la sua miglior prestazione?

Nel complesso va bene, tuttavia penso che se la band vuole andare avanti senza ripetersi deve abbandonare quest’approccio vagatamene thrashy; è stato sicuramente bello ascoltarlo in questi ultimi 3 album ma rischia di diventare un nodo che potrebbe ostacolare la loro creatività, cosa che se vogliono, come hanno dimostrato in alcuni frangenti, sono anche in grado di mostrare. Gli Evergrey dopo una fase simile hanno smussato il proprio sound arrivando con l’ultima uscita a proporre un sound non solo più moderato ma anche completamente ristrutturato nei suoni e nelle influenze. Se i Symphony X facessero la stessa cosa potremmo avere anche un nuovo capolavoro che aprirebbe effettivamente una nuova fase nella carriera del gruppo.

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