Premessa: non fatevi ingannare dalla lunghezza della rece, per favore leggetela, vi pago pure domani, (oggi sono al verde).

Fa effetto, no? Questo è un disco che mi ha cambiato la vita. Non sto scherzando. Molto (ma molto) probabilmente saranno in pochi o in nessuno quelli che si fermeranno a leggere questa mia, dato che è fin troppo difficile attirare il pubblico con il titolo di un album su cui ormai si è detto praticamente tutto (e anche di più). Io stesso ho tradito la mia etica personale di NON SCRIVERE MAI UNA RECENSIONE GIA’ PRESENTE!! Diamine, mi sono trattenuto dal rifare quella degli Opeth, quella dei Neurosis, quella dei Katatonia, quella dei Labirynth, quella dei Darkthrone, dei Piano Magic e così a non finire… Ma DEVO farla per un album che ha letteralmente cambiato il mio modo di approcciarmi alla musica. Uno dei pochi, vi assicuro, che ascoltavo anche per 10 volte al giorno senza stancarmi, quattro anni fa e che ancora ritengo degno dei miei padiglioni, quando di solito tutti i dischi di cui ho fatto “indigestione” in passato riposano per tempi anche molto lunghi tra un’ascoltata e l’altra (vorrei vedervi con più di 900 CD ad ascoltarli tutti quando non hai un minuto libero per farlo).

Ecco perché non voglio essere banale. Non voglio parlarvi di come suona l’album, che stanno i pezzi tribali armeni, che sta questo, che sta quello, così colà, pipì popò. A che serve? Tanto lo saprete già. Non credo sia possibile per un normale amante della musica che scrorrazza in internet non aver già visitato una pagina con una rece di quest’album. E d’altronde è stato già detto in altre recensioni su questo stesso sito. Quando si dice il successo (quelle poche volte che critica e pubblico vanno a braccetto, e la vera arte entra alla portata di tutti). No, amici, no. Io voglio parlare di un argomento forse molto più utile: quello che ho provato ascoltando quest’album. Che ho provato 4 anni fa, che provo tutt’ora. Leggete, se trovate la cosa interessante/divertente: in caso contrario basta un clic, la pagina sparisce e amici come prima. Ma non vi consiglierei di farlo.

Partiamo da un punto: io sono passabile dallo psicanalista. L’ho anche scritto nella mia bio, sarà vero. Eccone un esempio: i cari SOAD hanno rifatto il theme di “The Legend Of Zelda”, probabilmente il videogioco a cui sono più legato in assoluto. Un giorno leggo il manga, con Saria, Link e company, poi mi ritornano in mente i SOAD e mi colpisce la voglia di rimettere su “Toxicity” dopo tanto tempo per vedere che cosa provavo, ora che di musica ne capisco un po’ di più. Bei cojoni, mi sono detto. O cazzo, se preferite. Dopo 4 anni la sensazione non solo è rimasta la stessa, ma forse è stata pure più forte. Ho visto i peli che mi si raddrizzavano all’arpeggio di “ The Prison Song”. Accentuata dal fatto che pensavo a Zelda.

Mi viene un dubbio, ma succede solo a me questa cosa? A voi non vi è mai capitato di ascoltare più volentieri un gruppo dopo averlo ascoltato coverizzare una canzone? A me sì, diverse volte. Ad esempio ho iniziato ad amare i Poison The Well sul serio solo dopo aver ascoltato la loro cover di “Today” dei Pumpkins. Figurati quindi in questo caso, dove la cover era del theme di un videogioco che amavo. Ecco la mia (stupida, lo ammetto) idea: ascoltare un gruppo mentre non suona la sua musica ti fa preparare spiritualmente quando sarà il momento di ascoltarlo seriamente. Ti fa davvero entrare nell’ottica di un gruppo. So di essere poco chiaro ma, perdonatemi, non riesco davvero a spiegare questa sensazione. Ascoltare una canzone dei System mentre penso prima a Zelda e poi ad un loro testo politico (esempio) è qualcosa che mi fa eccitare, giuro. Prima lo scherzo, poi si fa sul serio. E come vedere il bambino innocente di “Shining” quando già sai che il padre andrà a cacciarlo con l’accetta. Cazzo Freud che fine hai fatto? Aiutami tu. Eccomi lì sul divano mentre il mio lettore accarezza “Toxicity”. “The Prison Song”. Riff violenti e violentati, stoppati per un tempo che sembra interminabile, poi ripetuti. Voce psicotica. Intrecci di voce computerizzata di condanna sul sistema carcerario negli USA, e poi Serj che impazzisce. E poi quell’arpeggio, Dio mio, quell’arpeggio. Ora so cosa sono i brividi. Appena sento "They try to build a prison… for you and me! Oooh baby… you and me!” seguita dal growl (ci sta!) di Serj, io mi sento G E L A R E. Altro esempio. I pezzi tribali in “Deer Dance”. La voce di Serj in “X” che, a dir poco, è geniale. Con un riff di chitarra che è la semplicità fatta riff, e proprio per quello emozionante. I rallentamenti thrash di “Atwa” e le accelerate psicotiche di “Shimmy”. Il coro di “Forest”, da pelle d’oca. L’assolo orientale in “Psycho”, una canzone che di orientale ha poco o nulla, e che tratta delle groupies. La voce incrociata di “Aerials” dall’atmosfera sulfurea, un inno metal di 4 armeni oppressi, così come la magniloquente title-track, la fatidica traccia 12 che è la ballata SOAD per eccellenza.
E infine, lei, la regina: “Chop Suey!”. Ma come si fa a descriverla. E’ geniale fin dal titolo (è il nome di un piatto). Un’intro di chitarra acustica che sfocia come un fiume in piena in un muro elettrico che si arresta di colpo. Testo sputato a mitragliatrice sull’ascoltatore mentre un sussurro ammalia e stordisce. Rallentamento, nuova sfuriata. Ma è tutto un pretesto per sfociare in un finale da opera d’arte, un tripudio di cori, di “when angels deserve to die”, una voce intrecciata avvolgente, note di piano che accarezzano l’anima.

Ma come si fa, porca troia. Ma come hanno fatto a farsi venire certe idee? Ciò che stupisce è come tante idee, diverse anni luce tra loro, si ritrovino assemblate in una proposta compatta, COERENTE, eppure mostruosamente eterogenea. L'incertezza. La schizofrenia. La psicosi. La malinconia. La tristezza. La gioia. La speranza. La rabbia. L’odio. L’amore. Questa musica è vera anima umana. La verità è questa: “Toxicity” è un album interamente creato dai particolari, che vive e si basa su di essi. Il suo potere mistico che lo rende così affascinante sta nel coglierne tutti gli aspetti particolareggiati che lo costituiscono, anzi che lo costruiscono. Non c’è nulla, ma nulla, ma proprio nulla nulla nulla in quest’album che non sia lì per un determinato motivo. Nulla. Non un riff, non un coro, non una melodia, non un assolo, non un uno spazio vuoto (pausa), non un microscopico pezzettino di voce. “Toxicity” è un capolavoro perché è costituito da tanti piccoli (grandi) capolavori, che sono tutti i singoli secondi che passano sul display del tuo lettore mentre lo ascolti. Un piedistallo obbligato nella storia di quello che definiremmo post-metal. Un classico imprescindibile. Irripetibile. Unico. Anzi: unici. Unici i 4 armeni. Unici quei piccoli, irripetibili, meravigliosi secondi.

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