Un hippy un po' dandy si ritrova, dalla fine degli anni 60, nel bel mezzo del bosco del "Sogno di una Notte di Mezz'Estate", portando con sé un po' del fascino dell'età vittoriana e lo spirito del rigattiere. Singolare questo Marc Bolan, che, a bordo del suo unicorno e con la sua chitarra acustica, sembra attraversare questo paesaggio fatato lasciando dietro sé (come le briciole di Pollicino) sedici preziosissimi "haiku", così che anche l'ascoltatore possa seguirlo e ripetere i suoi passi.
In quest'album fatato e fiabesco il folk inglese si sposa ad una spruzzata di rock anni '50, di ballata alla Donovan e di psichedelia per un risultato solo all'apparenza spensierato; si tratta, in realtà, quasi di un'esperienza spirituale cantata da Bolan con tratti giustamente mistici e trasognati, merito anche della sua voce leggermente androgina e dal gusto squisitamente retrò. I brani di "Unicorn", tutti piuttosto brevi, avvolgono morbidi e affascinanti, talora facili facili come una filastrocca ("The Seal of Seasons"), talora densi di mistero al limite dell'inquetante - senza però cascarci ("Pon a Hill", la canzone più breve della raccolta, e "Stones of Avalon", dove il cantato ostinato si rende quasi una litania). C'è spazio per ballate allegre, come la soffusa "She was born to be my unicorn", o anche vagamente epiche, come la bellissima "The Misty Coast of Albany", oppure per bordate romantiche non immuni dall'influenza dei Beatles più "patafisici" ("The Throat of Winter", "Like a white Star..." - con una stupenda, trascinante coda quasi country - e "Evenings of Damask", che mostra un sound oggi come oggi saccheggiatissimo e rivenduto come nuovo, frizzante e scanzonato pop britannico... Chi ha detto Old Man River?).
Ma Bolan anticipa anche future trame glam, come nella memorabile "Cat Black" e nella ritmata dadaista "Warlord of the Royal Crocodile" (delle stesse session di registrazione fa anche parte la stupefacente elettrica "King of the Rumbling Spires", poi uscita come singolo e contenuta in alcune ristampe come bonus track, forse il più epico e fiabesco brano glam di sempre), così come non smentisce di essere un inguaribile dandy ed esteta, piazzando il suo gentilissimo e fascinoso omaggio all'etereo ballerino/coreografo Nijinsky ("Nijinsky Hind"). Il tutto perso fra suoni minimi ma fantasiosi e veriegati (oltre alla chitarra, le percussioni dell'altro Tyrannosaurus Rex, Steve Peregrin Took, piccoli cenni di pianoforte e ghironda...).
Verrebbe quasi voglia di perdersi seriamente in questo mondo... ed ecco che arriva il finale di "Romany Soup": cinque minuti di pura narrazione e ritornelli ostinati, quasi a ricordarci che, dopotutto, sempre di una fiaba si tratta. Volesse il cielo che anche per il buon Marc ci fosse stato un meritato lieto fine.
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