Fine novembre 2017, l’anno sta per terminare, l’autunno muore lentamente e il re inverno (Kong Vinter) si fa strada di nuovo. Da Bergen, ridente e colorata cittadina norvegese, torna anche la nebbia furibonda di un certo gruppo che ha in un certo artista di nome Ørjan Stedjeberg il suo leader massimo. Taake, nebbia, Høst, black metal. Tutto è chiaro ora? Dovrebbe, a chi ama e cerca certe sonorità, dovrebbe, a chi ama e cerca l’autentico metallo nero, modellato e nato in quella Scandinavia cui tutti guardiamo con rispetto e devozione.

Siamo al settimo album in studio, di acqua sotto e sopra i ponti ne è indubbiamente passata dal quel 1999, anno che vide la genesi di una delle perle nere più belle dell’intera storia del genere, io stesso conobbi i Taake proprio con l’indimenticabile “Nattestid Ser Porten Vid” e non posso negare che lego questo progetto principalmente a quelle sonorità, come a quelle del discorso che si protrasse per i successivi due album, usciti rispettivamente nel 2002 e nel 2005. Ad ogni modo tutto scorre, i tempi corrono via pur lasciando indelebili tracce e le persone crescono, evolvono, sviluppano altre qualità, a volte faticano a reggere il confronto con la magia degli esordi, altre riescono sempre a non deludere (o almeno non del tutto) i propri sostenitori; questo il caso del nostro caro Høst a mio avviso, infatti in quest’ultima fatica, il percorso già intrapreso in “Noregs Vaapen” viene ben sviluppato ed esplorato ulteriormente, il tutto senza cadere nella noia e soprattutto senza perdersi più del dovuto nei labirinti della febbre progressive (pur presente e dosata in modo encomiabile), che ormai sempre più spesso vediamo fondersi in questo genere con risultati anche più che pregevoli, come ad esempio l’evoluzione dei connazionali Enslaved. Tornando a questo lavoro, già dall’inizio ci viene presentato il manifesto sonoro che stavamo aspettando (io con ansia) e tutto riprende forma, la forma che in due brani come “Sverdets Vei” e “Inntrenger” si palesa in tutto il suo splendore, ricordandoci quanto questo genio assoluto di Stedjeberg sia sempre maledettamente ispirato. Certo, qui dentro c’è tutto quello che il marchio “True Norwegian BM” può significare ancora oggi, non troverete particolari elucubrazioni sperimentali di chissà quale risma, qui c’è la tradizione nordica del Black Metal, come ho detto sopra, si continua là dove ci si era interrotti con “Stridens Hus” ed il suo predecessore: ci sono sferzate iperveloci che chi non è un neofita del gruppo di Bergen ben conosce, ma ci sono anche rallentamenti, repentini cambi di tempo come nella gelida “Havet i Huset”, nonché melodie che catturano e trascinano nel mondo buio e immobile dei Taake come “Maanebrent”, pezzo di 8 minuti dove si entra e si esce da un forte vortice che ora culla ora percuote senza mezzi termini e soprattutto nella conclusiva e lunga composizione, un pezzo che personalmente sto riascoltando più volte e che certo non richiede un solo ascolto per essere assimilato.

Aggiungere altri dettagli credo non serva, in linea di massima c’è chi detesta i Taake (o forse sarebbe meglio togliere il plurale) dall’album omonimo in poi e chi invece, come il sottoscritto, ne ha sempre apprezzato portata ed evoluzione, che ci volete fare? Adoro Høst, amo il suo modo di intendere il suono, l’estremo in musica, i concetti minimali a partire dagli artwork ed il suo modo attitudinale di concepire ogni singola apparizione, mi sembra l’ideale filo che unisce il passato di questo genere ed un presente che vuole mantenere sempre viva e luminosa la fiamma; ad alcuni potrà sembrare spocchioso, stronzo, costruito o un semplice provocatore egocentrico che ha perso l’ispirazione, pazienza… Dipende sempre da cosa uno va cercando, io che son qui a scrivere della sua ultima fatica, di certo cerco anche questo, cerco anche Høst ed ora è di nuovo tra noi, è tornato e io lo stavo aspettando.

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