Si ride. E son risate senza retrogusto, perché l'amarezza qui è tenuta a bada, per lunghi tratti. La satira sulla gioventù hitleriana è simpatica, ma molto facile. Cosa c'è di più facile che sfottere i nazisti e le loro contraddizioni? È come sparare sulla croce rossa. L'assurda narrazione degli ebrei, l'assurdo mito ariano, una società stupidamente militaresca. Il tono canzonatorio e iperbolico (ebrei con le squame e le corna, comunisti che “si fanno i nostri cani”) rende quasi scontata e accessoria la questione. Non c'è bisogno di argomentare, è tutto un maramaldeggiare.

Jojo Rabbit è bello soprattutto per altri motivi. Il nazismo simboleggia qualcosa di più. È la summa di tutti i miti e i tic mentali che gli adulti trasferiscono sui bambini, lasciandoli incastrati tra gli ingranaggi dei loro sentimenti genuini e quelli imposti e poi interiorizzati dell'educazione, dell'ideologia, dell'epica nazionale.

E in tutto questo c'è una madre meravigliosa che è dissidente politica, chioccia amorevole, e anche padre, se necessario. Una madre bellissima che deve sopportare gli entusiasmi politici del figlio di dieci anni, supportarli anche, ma raccordandoli al suo mondo di affetti, il mondo dolce di una madre che si preoccupa per le ginocchia sbucciate del figlio, ma gli dice anche che quelle orribili cicatrici che Jojo si trova in faccia non sono nulla di ché, che andranno via presto. Recita ottimismo con il cuore in frantumi.

Il personaggio di Scarlett Johansson conquista, non si può non innamorarsene. E laddove lo Stato sembrerebbe maschio virilissimo, in realtà si rivela fanciullo borioso, pieno di folli convinzioni, sempre corrucciato come il piccolo Jojo. In realtà il ragazzino vorrebbe solo sentirsi accettato, vorrebbe una carezza. E, allo stesso modo, lo Stato lo possono salvare solo le madri come Scarlett, mentre i mariti muoiono in guerra. Se non lo salvano, possono riaccendergli il senso dei sentimenti, la necessità della pace, la dignità dell'essere innamorati, anche di un'ebrea.

Il film ha un'andatura un po' zoppicante, alternata tra parti un po' blande e altre molto riuscite, anche visivamente. Strafalcioni buffi, personaggi macchietta, e poi approfondimento morale, diverse tonalità emotive. Ci sono inquadrature che restano impresse, e una riguarda un paio di piedi con scarpette smaltate. C'è un po' di retorica antinazista non necessaria che diluisce la qualità, ma alcuni momenti sono mirabili e tutto sommato il meccanismo antifrastico funziona. Mostrandoci l'entusiasmo dei bambini per il nazismo, si smascherano le implicite assurdità di un capriccio bambinesco.

Obiettivo base, facile, a cui si aggiunge la tenerissima battaglia di un bimbo tra sentimenti buoni e spontanei e sovrastrutture inspiegabilmente ostili ma ben sedimentate. Jojo di fronte all'amore non sa spiegarsi perché quel sentimento, secondo Hitler, sarebbe sbagliato. Quando vive, Jojo capisce che quella dottrina fa a cazzotti con il normale scorrere dell'esistenza e dei sentimenti. È un capriccio furibondo di un eterno moccioso che non vive, che si arrocca nel suo patetico castello.

Simpatico il Führer interpretato dallo stesso Waititi, che fa da prosopopea dell'anima del piccolo Jojo, tra gag slapstick e divertenti iperboli ideologiche. Dolcissimi i dialoghi tra Jojo e l'amico paffutello che mescolano assurde questioni belliche e normali confidenze adolescenziali. “Ho quasi la fidanzata, però è ebrea”.

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