I Talk Talk mi fanno paura. Nel senso che non concepisco come abbiano fatto a toccare le “vette” del successo, almeno in Europa, con una manciata di singoli synth pop intelligentissimi, molto catchy ma anche creepy, e che abbiano poi, in divenire, virato verso una forma di ambient colta, che in realtà avrebbe posto le basi per il post-rock, un genere atemporale, che, sì, ha a che fare con gli anni ’90, ma in realtà sa di qualcosa di retrò, richiamante un passato preciso (contaminazioni jazz), ma allo stesso tempo indefinito. Inoltre, e soprattutto, non riesco a capire la figura dietro i Talk Talk, la Mente: Mark Hollis. Che tipetto misterioso! Quando si esibiva sul palco e scuoteva la testa facendo ondeggiare la chioma bionda, a chi lo aveva a pochi passi doveva sembrare uno che si leggeva tutti i libri filosofici e tutte le guide sull’amore per poi abbandonarsi ad avances imbarazzanti, essendo troppo anacronistico, troppo ottocentesco: in una parola, inadeguato. Quella voce, poi!
Romantico e gotico sembrano immergersi nella stessa soluzione. Come si può non rabbrividire ascoltando una “It’s My Life” o la ben più iconica e canticchiata, storpiatissima “Such a Shame” (con testo ispirato a “L’Uomo dei Dadi” di Luke Rhinehart, pseudonimo di uno scrittore abbastanza fuori di zucca)? E se poi quel synth pop dalle tinte decadenti si fa ancora più rarefatto, e si fa maturo attraverso una conversione più convinta al jazz, in chiave classicistica, retrò – come avrebbero fatto i padri del trip hop, i Portishead –, cosa viene fuori? Viene fuori un album come “The Colour of Spring”, ponte tra due brevi epoche.
Non penso di poter parlare di una creatura così fragile e allo stesso tempo vigorosa, sfacciata. Posso solo dire che, quando parte “Living in Another World”, ma soprattutto, quando c’è quel cambio di tempo, nella stessa canzone, tra strofa e ritornello, io non sono più sulla Terra, e i piedi, nonostante siano attaccati al suolo, non contano più un accidenti. Già volo. E piango, anche. Sugli altri brani non voglio soffermarmi troppo. Basti pensare che “The Colour of Spring” è un flusso continuo di Bellezza, di Sublime: ogni brano ha qualcosa in comune con il precedente, ma assume le sembianze di un dolore diverso. Un’escalation. A tratti il sound può sembrare pomposo, la voce di Hollis potrebbe suonare come caricaturale, ma in realtà si tratta di quanto più sincero possa essere espresso in musica. In fondo basta un “prete alla cui parola fare bene attenzione” per credere che “la felicità” sia “facile”. Non solo! “La vita è ciò che ne fai”. Uno come Hollis se lo poteva permettere lo scetticismo, l’ironia. Allora tanto meglio beccarsi la pomposità di uno come lui, di questi tempi, rispetto a quella di un predicatore. Ma ora non c’è più. Mark Hollis non c’è più. Si è dissolto nel nulla, abbandonando la scena per stare maggiormente dietro alla famiglia (dichiarazione sua) – cosa nobile, certo! – ma che lascia un vuoto incolmabile in chi ride nervosamente, per trattenere le lacrime, al pensiero che appunto “la felicità è facile” ma che “solo gli angeli sanno dove mettere i piedi”.
Questa paura che ho dei Talk Talk è piuttosto una consapevolezza, di essere anch’io, come tanti altri, destinato a scomparire, perché le risposte non ci sono, se non quelle più semplici, quelle di una quotidianità vissuta, lontano dal mito, dalle luci di un palcoscenico. E magari scuotere la testa, nella vita di tutti i giorni, a braccetto con la propria moglie o con il proprio figlioletto, assume maggior coerenza, rispetto al vivere diviso tra la lacrima e la risata, come un pagliaccio che si è scordato il naso, e se ne è accorto solo quando è salito sul palco, per la messinscena.
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