NUDI NELLA FORESTA.
"David Byrne ha uno sguardo da manicomio, ma non emana un senso di pericolo: sembra solo un simpatico mattacchione che hanno mandato a casa dal reparto psichiatrico con una busta di Torazina." (Lester Bangs)
Lo zio Lester tratteggiava i contorni psico-fisici di mastro David Byrne con affettuosa e bonaria arguzia, e lui di manicomi musicali si che se ne intendeva: un pò il Franco Basaglia dei romanzieri rock. Era l'alba della rivoluzione copernicana Talking Heads. Chiuso l'umorale e tachicardico decennio Settanta, un ponte di concettuale melting-pot stilistico abbracciava idealmente il ritmo ancestrale di Madre Africa e la convulsa paranoia del moderno Occidente. Breve riepilogo cronologico, con le quattro Teste Parlanti a schiudere suoni incredibilmente inediti e antichi in un orizzonte vastissimo, prima sconosciuto e lontano; dall'esordio 77 che burlava new-wave e note oblique al trittico proteiforme con il signor Eno in cabina di regia, di cui Remain In Light sarà l'epocale e infinito Everest. Infine il canto dadaista e schizzato del manichino plasticoso Byrne su liriche di nevrosi metropolitane, a rimescolare ancor più le carte con l'aiuto dei sodali Harrison, Weymouth e Frantz. Praticamente anticiparono il meticciato sonico, l'incrocio impossibile che univa tradizione e avanguardia, tribalismo e foga intellettuale. Praticamente forgiarono l'etno-world degli anni Ottanta. Seminali? Perbacco! Se vogliamo associare la parolina magica nel giusto contesto, distante da spermatozoi e Ron Jeremy, pochi altri furono così folgoranti e pionieri. Dopo alcuni lavori che avvicinavano il mondo delle teste newyorkesi a un comunicativo pop-rock senza tanti fronzoli (Little Creatures l'emblema) giunse il 1988, altro giro di boa a chiudere una decade. Ed ecco l'ennesimo colpo d'ala, il pifferaio David e i compari della pregiata bottega decidono di trasferirsi in Francia, a Parigi, con la supervisione del discreto Steve Lillywhite, musicisti africani, tamburi, ottoni funk e la chitarra di Johnny Marr preziosa alleata in quattro brani.
Naked resta il miglior epitaffio e congedo possibile alla straordinaria avventura TH. Orfani del demiurgo Brian da tempo, l'ego in espansione del capobanda Byrne e le scorbutiche liti sul copyright sonoro segneranno l'inizio della fine. Ma i Nostri hanno ancora risorse per l'uscita di scena finale, sgambettano l'ondata rock-etnica di qualche annetto in un pop speziato, che si nutre dei suoi contrari nel vorticoso girovagare in cento direzioni differenti, senza mai perdere l'orientamento. L'epilogo di Naked è un flusso continuo di speranza e tensione, l'urgenza "globalizzata" (positiva) d'intersecare diversi linguaggi e culture. Tra movenze-calypso e l'arsura della Louisiana di Mommy, Daddy, You And I, il James Brown cesellato in giacca e cravatta della sorniona Blind (fantastico il videoclip diretto da Rocky Morton e Annabel Jankel) oppure il Centro America multicolore di trombe, fiati e congas che pervadono Mr. Jones. Un viaggio pieno di punti esclamativi, dove l'elettronica sinistra, sfuggente di The Facts Of Life incontra innocenti chitarre jingle-jangle e un basso sinuoso (Nothing But Flowers). Come la confluenza del Maranòn e Ucayali (due fiumi della regione andina centrale) origina il Rio delle Amazzoni e i suoi 7040 km, il blues ossuto dei padri in Ruby Dear si annulla risucchiato nelle acque profonde dell'inquieta Cool Water. Stop, e titoli di coda.
Un tropicalismo eclettico, che evoca il clima amazzonico sempre caldo e sempre umido, con una intensa nuvolosità e pioggie copiose distribuite uniformemente nel corso dell'anno. Potreste sentirvi persi e finalmente nudi, con la spiccata attitudine ad arrampicarvi degli arboricoli. Perché la distinta scimmia che ci osserva dalla copertina di Naked insegna: solo chi osa caparbiamente evolve e torna pacificato alla natura. Siamo tutti liberi (e nudi) nella foresta.
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