Uscito nel '83, collocato idealmente fra un capolavoro indiscusso come "Remain in Light" (’80) ed un grande successo commerciale come "Little Creatures" (’85), "Speaking in Tongues" è un album piuttosto trascurato nella discografia dei Talking Heads, ricordato dai più per il singolo "Burnin’ Down The House" che per i suoi contenuti. Non si tratta, in effetti, della miglior prova del quartetto newyorkese, ma ciò non significa che si tratti di un album banale, da lasciare nel dimenticatoio.
Può anzi osservarsi, in sintesi, come SIT rappresenti l’ideale ponte fra l’avanguardia funk rock di "Remain in Light" e le incisioni pop della seconda parte della carriera dei Talking Heads, più remunerativa sul piano economico, anche se meno stimolante su quello prettamente musicale: come passaggio fra due epoche, SIT presenta dunque tutti i pregi e difetti del gruppo, risultando un ottimo punto di osservazione per comprendere al meglio l’evolversi della carriera di Byrne e soci.
Ottima l’apertura del disco con "Burnin Down The House", ennesima riproposizione dell’ironia urbana del gruppo, accompagnata da una brillante sezione ritmica e da un incalzante accompagnamento che segue, in controtempo, il ritornello, dall’incedere caracollante: il pezzo è orecchiabile, ma lascia intravedere come il gruppo stia seguendo la strada del cliché, della autoironica ripetizione di se stesso nelle musiche e dei testi. La successiva "Makin’ Flippy Floppy" prosegue nella strada di un funk rock sostenuto da ritmiche taglienti, sul quale si erge il cantato straniante di Byrne. Eccellente il terzo brano dell’album, "Girlfriend Is Better", contrassegnato dall’intervento di Bernie Worrell dei Parliament alle tastiere, in cui ritmo e melodia si fondono al meglio: da notare l’assolo finale del sintetizzatore, che riprende le linee del basso e le ripropone in un turbinio sonoro davvero coinvolgente. "Slippery People" è, invece, la rivisitazione del gospel in chiave Talking Heads: scarno l’accompagnamento musicale, e ricco invece l’intarsio dei cori, guidati da Nona Hendrix, in alternanza con la voce solista. "I Get Wild/Wild Gravity", ricicla i suoni e l’andatura di "Makin’ Flippy Floppy", riproponendo in sostanza gli schemi funk pop di "Once In A Lifetime" (contenuta in "Remain in Light") sovrarrangiati e arricchiti dai sintetizzatori, seppur con esiti meno brillanti che nello storico singolo. "Swamp" si contraddistingue per il ritornello incalzante ed enfatico, nulla aggiungendo, tuttavia, al contenuto dell’album e risultando a tratti ripetitiva. Le successive "Moon Rocks" e "Pool Up The Roots" sembrano invece dei riempitivi, composti e suonati senza effettiva convinzione: si tratta di ennesimi esempi di funk rock trattato elettronicamente, contraddistinti da una uniformità ritimica che non giova al risultato complessivo. Il disco si conclude con "This Must Be The Place" (Naïve Melody), pezzo dichiaratamente pop con un facile accompagnamento dei sintetizzatori, sempre sorretto dal cantato di Byrne, piacevole all’ascolto.
Come già anticipato, SIT è l’epitome del sound del gruppo: pregevole nelle divagazioni funk e negli arrangiamenti che privilegiano gli effetti sonori più inediti, come pure i richiami alla black music e dalle poliritmie della musica etnica, talvolta debole nel songwritin’, forse perchè non sorretto dalla collaborazione di un deus ex machina come Bryan Eno, mentore dei Talking Heads alla fine degli anni ’70. Il voto è medio, anche se paragonato al tecnopop dell’epoca l’album meriterebbe qualcosa di più: ma a distanza di ventitre anni non è più corretto relativizzare.
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