Non capita tutti i giorni di imbattersi in una band australiana con la sovrannaturale capacità di mescolare l'estatica prima nebbia psycho/beat dell'Inghilterra 60s con la cricca dei Kosmici Krukki anni '70 e farne un solipstico mantra adattabile alle radio rock contemporanee. Ma nei quattro minuti e mezzo del singolo "Lucidity" i Tame Impala raggiungono questa preziosa distinzione, da mandare in infinito repeat nelle cuffie dello stereo ed aspettare che qualcosa cresca. C'è del magico nel frastuono di "Innerspeaker": un senso organico di disordine solo apparente, di arrangiamenti buttati li a caso per testare i passaggi sonori pre-ambient per poi risuonarli spalmandoci uno sciame di chitarre tremolanti che rimbalzano da una parte all'altra e sbattono contro i 'crunch' tonanti di basso e batteria. Fino a far scoppiare l'impianto.

Uno spettro sonoro s'aggira oltre l'Europa ed è in grado di sintetizzare in una mini-odissea da 40 minuti di antipodico hard rock e pop psichedelico come avrebbe potuto suonare il primo disco degli Stone Roses se avessero ascoltato più i Byrds che gli Who o cosa avrebbe combinato il giovane John Lennon alla guida degli Amon Duul II.

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