I Tamikrest ormai volano da soli. Non più nel l'ombra dei Tinariwen e tanto meno di quella dei Dirtmusic, dei quali facevano backing-band nell'album dell'anno scorso, BKO, che li aveva fatto scoprire al mondo. Adesso le loro canzoni che uniscono il rock psichedelico e acido made in USA con lo stile di Ali Farka Tourè (personaggio che ha iniziato questa scoperta al "rock del sahara") e il Tishoumaren dei Tinariwen, (genere che unisce blues del delta, rock tradizionale alle musiche del Touareg) possono volare da sole.
Incredibilmente questa crescita è avvenuta in poco più di un anno. Infatti, sotto l'attento sguardo di Chris Eckman, che produsse sia l'album di esordio (il più riflessivo "Adagh") sia quello dei Dirtmusic (di cui, insieme a Chris Brokaw e Hugo Race, fa parte), i Tamikerst producono un capolavoro. 11 canzoni bellissime, importanti e ispirate dove la band tuareg si avvicina ancora di più ai loro ascolti di Bob Marley (i ritmi in levare), Pink Floyd e Dire Straits. Chi è fan di questi 3 gruppi drizzi le orecchie. Quindi il lato world perde qualcosa in questo album rispetto al precedente ma ne guadagna tutto il resto. Sicuramente l'elemento che più si avvicina al rock classico è la chitarra, sia acustica che elettrica. Sicuramente i Timakrest senza essa sarebbero un altro gruppo. Ma le chitarre ci sono (ben 4 ne suonano in certi punti dell'album) e si sentono. Difficilmente negli ultimi tempi si è sentito una così preparata padronanza dei riff o assoli per degli esordienti. Anche il basso è sfruttato a dovere, un basso molto tribale, il cui compito è di tenere il ritmo, ricordandoci anche un pò il funk (in "Tarhamanine Assinegh"). La differenza più grossa è la batteria. In questo album non c'è sostituita dai tamburi. Apparte nell'ultima canzone, Dihad Tedoun Itran, che infatti è la più occidentale e anche la più debole dell'album. Cioè, non è brutta, è una bella canzone, solo che tutto il resto è bellissimo.
La lingua cantata è ovviamente quel Tamashek che già conosciamo grazie ai Tinariwen, ancora una volta segno di un'identità, quella del popolo nomade tuareg, che non può essere tralasciata ma che, anzi, in quanto popolo spesso offeso e violato, deve essere ancora motivo di orgoglio. Questa difficoltà di lingue i Timikrest la risolvano mettendo le traduzioni in inglese nel booklet. Prima Ali Farka Tourè, poi i Tinariwen, adesso i Tamikrest. Non pare tanto irrealizzabile che un giorno il nord-africa diventi quello che in questi tampi è il Canada e negli anni '80 era l'Australia: luoghi praticamente prima sconosciuti per la musica ma da cui hanno iniziato a venire band e cantanti solidissimi e bravissimi che compongono album bellissimi e importanti.
Certo, sono già più perplesso di una possibile risoluzione del problema del popolo Tuareg, senza l'uso dei fucili ma solo con le chitarre. Ma se solo continuasse a arrivare questa musica da quelle zone, e c'è solo da sperarlo, forse il nostro tanto screditato mondo non fa proprio così schifo come ci dicono.
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