"Fermiamoci, stabiliamo una cosa. Noi ora stiamo per creare un nuovo lavoro. Siamo con la Virgin. Stiamo ancora facendo fesserie cosmiche, ma non possono essere le stesse fesserie di prima. Noi vogliamo vendere dischi. Noi vogliamo vendere UN BEL PO' di dischi. Vogliamo essere commerciali. Abbiamo bisogno di esserlo, e lo saremo. Ma saremo eleganti in questo. Saremo creativi e commerciali allo stesso tempo. Faremo l'impossibile, non sacrificheremo la nostra identità, ma ciò nonostante saremo popolari."
Parlando francamente, non riesco ancora a capire come "Phaedra" abbia potuto raggiungere quelle alte posizioni nelle classifiche dell'Europa del tempo. Probabilmente è per lo stesso motivo per cui "Thick as a brick" dei Jethro Tull raggiunse i primi posti due anni prima: la gente stava inebriandosi dello spirito del tempo e ha provato ad adattarsi ad esso, o probabilmente si augurava di riuscirci.
Ad ogni modo, insieme ai Kraftwerk, si differenziano e non di poco dal resto della musica dominante al tempo. Tangerine Dream e Kraftwerk erano di fatto i due più grandi gruppi elettronici della metà dei '70 (attenzione: parlò della metà, e non dei primi '70 dove band come Faust e Can dominavano superbe e vendevano miseramente). L'elettronica era il futuro, e farsi spazio cercando di essere accessibili a tutti non era cosa facile. Ma mentre il sogno dei Kraftwerk era di perfezionare una sorta di freddo approccio "robotico", i Tangerine Dream stavano ancora perfezionando i loro componimenti astrali.
"Phaedra" fa proprio questo - ancor più di "Green Desert" - ossia va prepotentemente a ricreare un atmosferico e vertiginoso ambiente spaziale. Da prassi, il primo lato è interamente occupato da una sola traccia (la title-track), mentre il secondo lato è dedicato a tre tracce "minori".
"Phaedra" è strutturata in maniera similare ad "Atem": una parte veloce ed energica seguita da una lenta e "malinconica", solo che in questo caso le due parti sono più o meno uguali in lunghezza. Sono 17 minuti di poema elettronico, mai prima d’ora la band aveva usato ritmi sequenziali così ampiamente, e l’effetto prodotto è davvero ammaliante. Dopo una calma, luccicante introduzione, entra una costante linea di bassi (quasi morfinica direi) che è il punto attorno al quale si sviluppa una delicata tessitura di synth; quindi i bassi si affievoliscono progressivamente (non senza un ultimo riflusso) non appena riparte la quieta atmosfera iniziale. A questo punto entrano delle “voci” solenni, e il pezzo termina con una rivelazione finale. Un pezzo nel quale confluiscono inscindibilmente tutti i crucci musicali della band, ed è questa probabilmente la quintessenza del periodo classico dei Tangerine Dream. Più in particolare, la parte accelerata introduce al pubblico per la prima volta un particolare loop, il boopy (presente anche sul disco "Green Desert” registrato l'anno prima ma pubblicato solo 12 anni dopo), ed è davvero affascinante nel suo sviluppo e nella sua progressione, sebbene oggi possa essere ottenuto facilmente anche senza esser troppo esperti di elettronica; tutto sta nel piccolo effetto col quale il loop improvvisamente inizia a salire di tonalità, fondamentale per la resa, fantastico nel regalarci una situazione di ansia e quiete allo stesso tempo.
Un segmento di 50 secondi riproducente voci e rumori di bimbi che giocano ci prepara a “Mysterious Semblance at the Stand of Nightmares”, che non ruota propriamente attorno a un perno centrale ma piuttosto evolve da una serie di variazioni armoniche che possono facilmente ricordare, tra l’altro, una processione notturna. La strumentazione è dominata dal mellotron, ancor più che in Fauni-Gena da "Atem" dell’anno precedente. A metà del quinto minuto un breve passaggio introduce ad uno stato di tensione causato da melodie quasi in competizione tra loro, ed è facile che ciò ci regali le visioni più assurde; il piano di Baumann va man mano sfumando, e il mellotron dapprima in ripresa sprofonda nel silenzio, mentre pian piano risale un rumoroso vento che va ad unirsi alle oscillazioni del VCS3. Personalmente parlando, prestazioni di tale enfasi al mellotron le ho sentite soltanto in “Aguirre” dei Popol Vuh.
In “Movements of a Visionary” Baumann inizia a riprodurre una labile voce col synth, alla quale vien data una forte tonalità acuta, che dopo un po’ va ad unirsi ad una veloce sequenza di note che fuoriescono dal moog di Franke. La sequenza poi riecheggia dal synth, e Froese ci butta su delle note d’organo dalle tonalità abbastanza elevate, che vengono intercettate dal riverbero del piano di Baumann. Bastano questi minuti finali ad elevare la resa del pezzo, e il concentrare del tutto in una così breve durata va tutto a vantaggio dei loro meriti creativi.
In “Sequent ‘C’ ” è solo Baumann a suonare. E’ una fuga che si svolge su un lungo e costante indugio in modo che dopo circa 20 secondi egli possa continuare a suonare una nuova melodia su quella precedente. Ciò può essere in parte di rimando ad alcune riproduzioni musicali di Terry Riley, e a mio avviso non v’era miglior modo per concludere il disco.
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