Terzo full lenght datato 1988 per i thrashers di Francoforte, dopo il non eccelso esordio “Zombie Attack” (’86) e il più che discreto “Chemical Invasion” (’87).
Sicuramente tra gli apici della ormai ventennale carriera della band, “The Morning After” ripropone pedissequamente quella che era - e sarà, in pratica fino a oggi – la formula musicale dei dischi precedenti: thrash metal teutonico decisamente aggressivo (grazie anche al cantato particolarmente sguaiato di Andreas Geremia, oggi unico rimasto della formazione originaria, insieme al bassista Frank Thorwarth), costruito su un riffing magari non particolarmente originale o tecnico, ma sufficientemente vario e, soprattutto, incredibilmente veloce, arrangiamenti essenziali e assoli tra i più casinari di sempre.
Il disco si presenta estremamente compatto, privo di cali di tensione, catchy al punto giusto – soprattutto grazie alle ottime linee vocali -, ma presta il fianco a talune critiche in fatto di originalità e varietà delle composizioni. Da segnalare la cover di “Try Again” degli Spermbirds e la squarciagolesca e hardcoreggiante conclusiva “Mon Cherie”. Un ottimo album, quindi, consigliato a (e, per certi versi, doveroso per) ogni amante del thrash tedesco anni ’80.... e secondo voi i Tankard si possono liquidare così, in poche righe?!? A parte la questione musicale (su cui non credo ci sia moltissimo altro da dire), ciò che rende veramente grandi i Tankard è un valore aggiunto carente nella stragrande maggioranza dei gruppi metal: l’(auto)ironia. La questione è molto semplice: i Tankard sono un gruppo di inestinguibili cazzoni e ne vanno fieri. Stiamo parlando di una band che, a uno degli ultimi Bang Your Head Festival, è salita sul palco in pigiama per protestare contro l’irrispettosa scaletta che li vedeva esibirsi alle due di pomeriggio (orario più adatto ad un sonnellino che a un concerto metal).
Ma soprattutto, stiamo parlando di una band che per 20-anni-20 ha scelto di disquisire, in maniera partecipe e con grande cognizione di causa, di uno degli argomenti più cari al metallaro medio: le ciucche (tant’è che il “tankard” non è altro che il tipico boccale tedesco da birra, talvolta persino dotato di coperchio salva freschezza). Il tracannare – e qui sta la genialata – viene tirato in ballo con qualsiasi pretesto: come legge divina (come nella opener “Commandments”, in cui si ipotizza l’esistenza di alcuni comandamenti da aggiungersi ai dieci canonici: “Non ne sprecherai e non ne rovescerai. Bevi la tua birra e basta”), come spaccato della quotidianità dell’uomo moderno (il traumatico risveglio post baccanale del beone della title track) e, addirittura, come elemento orrorifico (la malvagia creatura della notte di nome Lohocla, che ruba la birra agli onesti ubriaconi e che da il titolo a “Feed The Lohocla”, appunto). Per dovere di cronaca, tuttavia, occorre sottolineare che, perlomeno in questo disco, una certa varietà di tematiche la si può trovare: in “F. U. N.” la band si rivolge direttamente al proprio pubblico, chiedendo una maggiore moderatezza durante i concerti, in “Desperation” ci si spinge fino ad un’analisi spietata delle nevrosi compositive che assalgono l’artista fancazzista, fino a “Help Yourself”, raro caso in cui la band mette da parte l’ironia per affrontare, anche se col proprio stile puntualmente sopra le righe, lo scottante tema delle guerre di religione.
Se poi si aggiungono la copertina ultracitazionista, e molto probabilmente autobiografica (anche se quella dell’ultimo LP “The Beauty & The Beer” non la batte nessuno), e il fatto che Gerre abbia un pancione etilico stile Babbo Natale dopo una cena di lavoro a base di carne di renna, è facile intuire perché il gruppo possa vantare un seguito così affezionato. Insomma, i Tankard non verranno certo ricordati (se mai un giorno smetteranno di fare thrash) per aver sfornato chissà quali capolavori (con l’unica eccezione, forse, proprio di “The Morning After”), ma meritano un doveroso rispetto per avere prodotto musica estrema più che dignitosa per oltre vent’anni. Forse non avranno mai raggiunto le vette di successo o di “imprescindibilità” storico-musicale della triade e forse li si può accusare di eccesso di coerenza artistica (modo raffinato per dire che fanno da vent’anni la stessa roba), ma rimangono un pezzo importante della scena thrash tedesca anni ’80, giunto fino a noi con costanza e dedizione al genere, proponendo, tra l’altro, un’ alternativa festaiola allo stereotipo del thrasher cattivo, musone e violento.
E ciò, se certo non li esenta da critiche legittime alla loro produzione musicale, perlomeno ce li rende più simpatici.
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