Sylvester Enzio Stallone detto “Sly” è per tutti noi John Rambo e Rocky Balboa, è Robert Hatch in “Fuga per la vittoria” ma anche il tenente Cobretti. È Gabriel “Gabe” Walker sulle alture del Belpaese in “Cliffhanger” ed è anche Barney Ross ne “I Mercenari”.
E ora è Dwight Manfredi, il Re di Tulsa.
Dopo essere stato bocciato durante i provini de “Il Padrino”, il buon vecchio Enzio si deve essere sentito al settimo cielo dopo aver ricevuto l’incarico di interpretare un tosto, seppur “maturo”, boss mafioso in trasferta. Come deve essersi sentito orgoglioso di essere il protagonista della serie di punta per il lancio della piattaforma streaming “Paramount+”.
Nato in un istituto di carità di Hell’s Kitchen, quartiere di Manhattan a ridosso della 34ª strada (quella del Miracolo ndr), Sylvester ha avuto una vita tutt’altro che facile fin da piccino. Figlio di un barbiere immigrato italiano di origine pugliese e di un’astrologa statunitense, il piccolo Stallone viene preso a schiaffi dalla vita già dal parto, quando il forcipe gli recide un nervo facciale bloccandogli per sempre la mobilità della parte sinistra del viso. Poi il rachitismo in età adolescenziale, la separazione dei genitori per seri problemi di alcolismo della madre, la vita col padre severo nel Maryland e di nuovo il ritorno con la madre questa volta nella città di Rocky, portano il giovane Sylvester ad abbracciare un po’ di ottimismo e una nuova visione della sua esistenza. Il football e la scherma, il diploma, poi la borsa di studio utilizzata per la scuola americana in Svizzera, saranno il crocevia per il mondo della recitazione. Dopo la facoltà di arte drammatica, mollata a metà percorso, Stallone inizia ad abbracciare seriamente l’idea di fare l’attore. Torna pertanto a New York e si mantiene con lavoretti umili e saltuari, trovandosi a un certo punto talmente in difficoltà da dover vivere per strada.
Dopo un inizio in sordina e un “Porno Proibito”, la carriera toglie il carrello e inizia il decollo. Ad oggi Mr.Stallone ha settanta film all’attivo, una ricca manciata di apparizioni televisive e una stella sulla Walk of Fame.
Ma veniamo a Tulsa King. Dwight Manfredi esce dal carcere federale nel quale è rinchiuso da un quarto di secolo, dove ha scontato una condanna in totale silenzio, sobbarcandosi le colpe del suo Padrino e della famiglia di cui fa parte da sempre. Dopo venticinque anni, l’aria fuori dalla cella ha un altro odore, i contanti non li usa più nessuno, i telefoni non si impugnano solo per telefonare e i taxi si prenotano con un’applicazione. Ma questo è il lato romantico della questione. Quello più difficile da digerire riguarda la “famiglia”, che si è dimenticata di Dwight e del suo onore e rispetto. Non c’è più posto a New York per lui. L’unica alternativa alle luci e al chiasso della Grande Mela è la polvere e l’odore di bestiame dello stato dell’Oklahoma. Una volta digerito lo smacco e smaltita l’incazzatura, il prode Manfredi salta su un aereo, destinazione Tulsa.
Tra motel, strade dissestate e costolette di maiale, è difficile trovare terreno fertile per costruire una prolifica attività criminale. Ma il “Generale” Dwight Manfredi non si è mai arreso e non ha intenzione di farlo ora. Insidiando il titolare di un modesto spaccio di marijuana, il pacato ed irriverente Bodhi ed assumendo come autista tuttofare il giovane e fedele Tyson, Dwight getterà le basi della nuova famiglia criminale e del suo piccolo impero. Non mancheranno le difficoltà e gli antagonisti, tra i quali una pericolosa accanita banda locale, nonché il governo che, tramite il lavoro della ATF non mollerà la presa sul malvivente italo-americano in trasferta dallo stato di New York. Anche il passato avrà da dire la sua, dimostrando la solita poca riconoscenza.
Stallone dimostra di essere ancora in splendida forma con le sue settantasei primavere alle spalle e risulta perfettamente e a suo agio con l’abito elegante del gangster farcito di ironia. Perché Dwight Manfredi fa tutto con il sorriso e anche nelle situazioni che richiedono freddezza a determinazione, non dispensa mai una piccola parentesi condita da ironia. Il suo è un personaggio al quale ci si affeziona, con il quale si prova empatia e per il quale in definitiva si tifa e simpatizza. Ben consci di ciò a cui stiamo assistendo e capaci di scindere la realtà della finzione. Perché appassionarsi alla mafia del piccolo e grande schermo per alcuni troppo spesso è sinonimo di poca prudenza nella gestione di una figura pericolosa che deve essere esorcizzata. Manfredi ha una figlia e due nipoti, un passato da “rispettabile” criminale e un futuro ambizioso altrettanto criminale, che è più che altro un’incognita e guai se non lo fosse, dato che è già prevista una seconda stagione.
Le puntate di questa prima stagione sono nove ealmeno la metà di esse mantengono alta l’attenzione, l’interesse e il divertimento, per poi calare avvicinandoci al finale. Complice la poca inventiva nello sviluppo della trama e la monotonia di alcune situazioni. Tra i pro abbiamo uno Stallone in solita grande forma, un personaggio tanto divertente quanto carismatico e gregari capaci e assolutamente adatti ad interpretare il lato grottesco della storia. Nei contro abbiamo il ritmo a tratti troppo lento e dialoghi prolissi e fini a se stessi, che tolgono inevitabilmente appeal alla narrazione, rendendola imbolsita e lasciandoci “solo” la voglia di cercare Dwight Manfredi nell’inquadratura successiva.
A modo suo “Tulsa King” è un progetto valido e ambizioso ma anche egocentrico e in definitiva già involuto alla fine della sua stagione d’esordio.
Essere indecisi se rinnovare oppure no l’abbonamento alla piattaforma streaming che trasmette questa serie tivù, in attesa degli episodi inediti, è sicuramente la risposta più immediata alle nostre domande. Sicuramente, se dovessi farlo, sarebbe solo per rivedere il mitico mezzo sorriso di Sylvester Stallone.
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