Caspita! Partiamo dall'inizio, girolando per negozi di dischi mi imbatto nella versione deluxe di "Songs From The Big Chair" disco che conosco perfettamente ma che non avevo in CD e quindi quale miglior occasione se non quella di acquistare la versione "Lusso" comprensiva di tutte le b-sides dei singoli e delle "rarità" e cioè delle versioni extended dei 12" o le versioni ridotte dei 7". Lo ascolto nuovamente a fondo e con impegno per ritrovare ciò che ricordavo e magari per cogliere quello che all'inizio non avevo carpito.

Ebbene il giudizio massimo per questo disco, a mio avviso, è obbligatorio ma prima di decidere di creare la mia "debaserata" su questo disco penso: "Chissà che avranno detto di "The Big Chair" su DeBaser". Scopro con mia somma sorpresa che non esiste una recensione specifica su questo gioiello di pop-rock di raffinatezza e qualità smisurata. Esistono schede degli altri dischi (quasi tutti eccellenti) dei TFF ma non di questo e quindi mi decido a farla io. Penso altresì che pur essendo abbastanza giovane (33) ho passato anni, tra i 16 e i 25, nei quali ero convinto che dischi di questo genere o di questi gruppi fossero per ragazzini senza spessore e quindi mi buttavo ad adorare esclusivamente "roba" tipo Gentle Giant, PFM, Van Der Graaf Generator e progressive più o meno noto. L' "Università di Rock Progressivo" mi ha aiutato enormemente e di questo la ringrazierò per sempre perché quando ho capito che anche altro poteva essere interessante ho iniziato ad ascoltare praticamente tutto ma con delle basi cerebrali diverse ed ecco che dischi come questo, come tantissimi altri, non potevano di certo passare inosservati.

Passando, e mi scuserete se lo faccio solo ora, alla mia valutazione di questo "must" dei TFF mi trovo nella situazione di recensire la versione deluxe (piena di frizzi e lazzi) o la versione normale. Decido di analizzare la versione classica dicendo però che le sette b-sides inserite nel primo CD di questa versione sono praticamente quasi tutte degli strumentali, molto minimalisti "The Marauders" la migliore, poi "The Big Chair" e "Pharaos". Dolcissima è invece di "Sea Song" splendida cover di un altrettanto splendido brano di Robert Wyatt, che non avrebbe sfigurato nella track list ufficiale. Mentre nel secondo CD di "rarità" spiccano un paio di bei remix di "Shout" e "Rule The World". Ma dedichiamoci al disco come "mamma l'ha concepito". "Songs From The Big Chair" ha chiarissimi riferimenti alla psichedelica degli anni '60 ma anche, ed è ovvio sia così, al pop degli anni '80. Questa miscela di suoni amalgamata come meglio non si potrebbe crea un prodotto molto "avanti" per l'epoca pur essendo costituito su basi già note. Se vogliamo trovare una piccola pecca al lavoro di Orzabal e Smith possiamo individuarla nella vigorosa decisione di sovra incidere massivamente il lavoro diminuendo così il fattore "freschezza".

Il titolo si dice sia stato influenzato da una mini-serie (libro e TV) britannica intitolata "Sybil" che narrava della storia di una donna dalla personalità multipla che spesso si rifugiava nella sua personale "grande sedia - big chair". Da non dimenticare l'importante lavoro anche in fase di produzione di Ian Stanley (tastierista ed anche compositore), Chris Hughes e David Bascombe che hanno avuto il grandissimo merito di coadiuvare il duo "titolare" a praticare questa nuova strada sonora e compositiva. La partenza col botto elettrico di "Shout" è da primato. Un brano così famoso ma anche così variegato. Una struttura che per sei minuti e mezzo sembra sempre sullo stesso piano ma che ha al suo interno numerosissimi spunti di differente ed eccellente riuscita: "In un'era violenta non dovrsti essere costretto a vendere la tua anima in bianco e nero. Loro dovrebbero proprio saperlo, quelli lì, con la fissa in testa, quelli per i quali sei un ragazzo a posto. Salutali, non dovresti saltare di gioia".. Si prosegue con la splendida raffinatezza di "The Working Hour" con i sassofoni di Mel Collins e William Gregory in grandissima evidenza e l'altrettanto straordinaria e fortunata "Everybody Wants To Rule The World" che su ritmi più pop sciorina un refrain che ti si infrange in testa in modo indelebile e che: "C'è una stanza dove la luce non ti troverà, ci terremo le mani mentre I muri crolleranno, quando accadrà sarò accanto a te, felice di avercela quasi fatta triste perchè hanno dovuto farlo svanire tutti vogliono governare il mondo".

Più possente è la coinvolgente ed ossessiva "Mothers' Talk" altra gemma di synth-rock elettronico con roboante lavoro alle percussioni elettriche e non. Si torna a sognare con la notturna e sognante ballata di "I Believe" un pezzo per sax e pianoforte che dimostra la non comune poliedricità dei TFF. Ascoltando questo pezzo, che viene dopo hit memorabili ma sempre di eleganza assoluta, si può giudicare sorprendente l'operato di "Songs From The Big Chair" che è riuscito a vendere milioni e milioni di copie a differenza delle famose "One Shot" create negli anni '80 "solo" per vendere ma senza regalare emozioni più profonde anche a distanza di anni. "Broken" è invece il pezzo rock del disco. Uno sfrenato e trascinante semi-strumentale con le chitarre di Orzabal e soprattutto di Neil Taylor che ci lasciano forse troppo presto (il brano duro purtroppo solo due minuti e mezzo) ma che ha il merito di accompagnarci all'ennesimo capolavoro "Head Over Heels" dove un riuscitissimo riff al pianoforte accompagna l'intero brano modificandosi e inserendosi anche su chitarra e tastiere: "Sono perso di ammirazione, posso volerti così tanto? Stai sprecando il mio tempo. Stai sprecando il mio tempo. Qualcosa accade e io sono sottosopra. Non lo scopro finchè sono sottosopra". Il brano si chiude alla grande con un richiamo della già citata e spettacolare "Broken" che ne eleva ulteriormente la preziosità. "Listen" ascoltate, infatti fatelo dico io. Una minimale e lunghissima fuga dalla realtà terrena. Fatevi accompagnare dal telaio sonoro creato dalle tastiere e dai sintetizzatori che abbonderanno leggiadri nelle vostre orecchie per quasi sette minuti nei quali la voce di Orzabal e Marylin Davis e qualche riff di elettrica slow vi aiuteranno a non disperdervi nel nulla. Unico "non-singolo" del disco insieme a "Broken" ma diamine, avercene di "non-singoli" come questi due!

Il disco si chiude con la ripresa di "The Working Hour" in una così definita "Piano Version" più scarna (solo voce e tastiera praticamente mono-tono e virgulti di sax) ma comunque interessante. In conclusione non dico altro che consigliare di ascoltarvelo se l'avete già in casa o comprarvelo se non lo possedete ancora.

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