Qualcuno credendoci, qualcuno con intenti non poi così nobili - molti artisti e gruppi si sono ritrovati, verso la metà degli anni '80, risucchiati dall'ambiguo (ma non del tutto deprecabile) calderone del buonismo musicale. È il momento in cui spuntano come funghi nell'umidità boschiva i vari progetti umanitari che, volente o no il pubblico "pagante", lasceranno un segno nel panorama artistico del periodo. Col proliferare di queste reunion di all star impegnate a concedere le loro preziose voci a melodie pacificamente zuccherine quali "Do They Know It's Christmas" di Geldof o la sua americanina risposta ("We Are The World", a firma Michael Jackson) - si moltiplicano puntuali anche dissacranti critiche e sberleffi da parte di colleghi inclini a vedere nella causa una mera strategia di mercato; "Charity Begins At Home", sarà lo slogan più o meno ufficiale di chi non si asterrà dallo svilire o mortificare l'eterogenea messe di neo-santoni del rock. Ma lo spettacolo, si sa, è pur sempre spettacolo. Così, oltre ai nomi più navigati come il citato Jackson - da poco e definitivamente entrato anche nei libri di storia - o il tanto amato (ma successivamente, e proprio a causa di queste iniziative, anche vituperato) Sting - non mancherà neanche a sbarbatelli di più recente esplosione la ghiotta opportunità di salire su un palco tanto in vista per dire la propria. E proprio alcune melodie di tali giovani leve diventeranno, loro malgrado e non sempre meritatamente, piccoli manifesti dell'operazione tutta.
È appunto quanto capita ai Tears For Fears di "Everybody Wants To Rule The World", grande tormentone targato 1985 e cavallo di battaglia del multimilionario secondo album del duo, "Songs From The Big Chair". Che poco in realtà avrebbero da spartire con tutta la suddetta messa in scena, risplendendo - il singolo per freschezza e perfezione melodica, il disco per originalità e grande impatto emotivo (ascoltare "The Working Hour", "I Believe" o "Listen" per credere) - entrambi di luce propria. In mezzo a un cotanto polverone massmediatico, si comincia a intuire il nome di chi davvero può dirsi forte di un vero e proprio messaggio melodico, di un'istanza che non solo non piega l'arte alle esigenze dello spettacolo, ma al contrario si serve di quest'ultimo come lasciapassare in vista di riconoscimenti non marchiati dal benché minimo compromesso. E infatti - salve rimanendo l'ottima prima prova di "The Hurting" (già a suo tempo un cult, grazie ai singoli "Change", "Mad World" e "Pale Shelter") e l'irresistibile riuscita del 'must' di cui sopra (in cui, a mio avviso, svetta alla grande il pop tormentato di "Head Over Heels") - i quattro anni di assoluto silenzio prima dell'uscita di "The Seeds Of Love" (1989) niente potranno contro la terrificante compiutezza di questo disco.
La ormai pluripremiata ditta Orzabal-Smith sbancherà nuovamente il botteghino, sbalordendo in un colpo solo pubblico e critica - sbigottito l'uno dalla carica esplosiva del singolo portavoce ("Sowing The Seeds Of Love": i Beatles più irriverenti e psichedelici a colazione con la migliore tradizione blues), l'altra dallo scoprire dietro al volto sintetico della band le straordinarie intuizioni di compositori a tutto tondo. Il tutto con l'ausilio di collaboratori speciali e musicisti a dir poco quadripalluti e assolutamente insostituibili: così, mentre è alla sapiente batteria del Phil Collins più sincopato che viene affidata l'indimenticabile apertura melodica di "Woman In Chains" - gioiello pop capace di nobilitare l'intera storia dell'easy listening - , c'è poco di umano nella strabiliante tenuta degli alti della voce di Oleta Adams - perla nera scoperta e chiamata dal gruppo a condire i cori del disco e a giganteggiare negli irripetibili 8 minuti à la Little Feat di "Badman's Song" (su un episodio vissuto da Orzabal prima di un concerto). Sprazzi di fusion lancinante e suadente ("Standing On The Corner Of The Third World": reminiscenze dei Live Aid?) introducono la seconda parte del disco, una suite che sfoggia anche i sei liricissimi minuti di "Swords And Knives" - dal testo fortemente tinto di "dramma" e dalla cadenza melodica progressivamente sempre più elettrificata - e la cavalcata pseudo-live dal profumo molto Prince di "Year Of The Knife" (inframezzata da inserti proto trip-hop aggiunti in studio), per chiudere con la rassegnata e malinconica ninna-nanna di "Famous Last Words", ultimo dei quattro singoli, venato di ambizioni orchestrali. Poco da aggiungere su "Advice For The Young At Heart": dubito che possa non essere uno dei più roventi, emozionanti, ispirati saggi di pop song degli ultimi vent'anni, testo stremante e melodia fondente, pagina più compiuta ed esemplare di un disco maturo e inossidabile.
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